Dal concilio la voce nitida della Chiesa
giovedì 25 maggio 2023

Giusto il 23 maggio di cinquant’anni fa celebrando a Venezia il decennale dell’enciclica Pacem in terris di san Giovanni XXIII, l’allora patriarca Albino Luciani ebbe a dire: « Non si giudichino utopistiche o inattuali le nostre speranze. Realista è non chi crede si possa andare avanti come prima, ma chi “percepisce il dinamismo di un mondo che vuole vivere più fraternamente”; chi si accorge di essere “in gioco la vita dei popoli poveri, la pace civile nei Paesi in via di sviluppo e la pace nel mondo”». « I conflitti di interesse tra Stato e Stato – riprendeva poi – essi scoppieranno sempre, ma le guerre non saranno mai capaci di risolverli.

Occorre liberarsi dalle vecchie concezioni sulla guerra mezzo per risolvere i dissensi: bisogna far fare alla storia una svolta e preparare i tempi in cui qualunque guerra sarà bandita. Eccoci, allora, davanti agli armamenti giganteschi e terrificanti. Essi rappresentano uno schiaffo enorme ai cittadini dello Stato, che al posto delle armi costosissime, potrebbero avere scuole, ospedali e migliori servizi. Ma sono schiaffo anche ai popoli sottosviluppati privati degli aiuti indispensabili».

Queste esatte parole che suonano di strettissima attualità, pronunciate da papa Luciani, proclamato beato lo scorso 4 settembre, sono state riprese dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin nel suo intervento martedì come presidente della Fondazione vaticana Giovanni Paolo I all’Università Ca’ Foscari di Venezia nel corso della presentazione del volume su Il magistero di Giovanni Paolo I. Uno studio storico e teologico attraverso le carte d’archivio. Soprattutto, nell’attuale contingenza, esse mettono in luce «come in questa prospettiva oggi come allora ciò che si fa nella Sede di Pietro interessa il mondo intero – ha affermato il cardinale Parolin –, anzi, quel mondo che non si attende programmi politici dalla Chiesa, né una scelta di blocchi o frontiere, ma il coraggio del dialogo, della prudenza, nella parresìa di parlare ai potenti con la forza della fede, della santità, della preghiera. Le armi che più contano. Le sole armi efficaci in un’epoca travagliata, che anche oggi, sotto i deliri di potenza, sotto l’aridità e l’indifferenza nasconde una sete illimitata di giustizia e di pace».

Nel corso del breve pontificato di Giovanni Paolo I emerge come priorità l’attività di promozione della pace, il compito di favorire la riconciliazione e la fraternità tra i popoli, invitando alla collaborazione per «tutelare e incrementare la pace in questo mondo turbato». Priorità che lo porta a scrivere direttamente al presidente degli Stati Uniti, a chiamare alla preghiera per la pace i leader di diverse fedi citando anche il Corano insieme alle Sacre Scritture, affinché si possa giungere a una pace «giusta, cioè con soddisfazione di tutte le parti in conflitto », e «completa, senza lasciar irrisolta alcuna questione». Priorità che lo portano ad affermare che la pace non scaturisce mai dalla guerra e a bandire il traffico di armi: « La fabbrica, la vendita e l’acquisto delle armi convenzionali è addirittura cosa scandalosa. Stati cristiani e già ricchi vogliono arricchirsi di più, vendendo armi: Stati poverissimi, che mancano di tutto, spendono i pochi soldi che hanno a comperare armi».

Priorità che compaiono con chiarezza nell’allocuzione al Corpo diplomatico tenuta il 31 agosto 1978, nella quale Luciani, affrancandosi da presunzioni di protagonismo geopolitico, definisce esattamente la natura e la peculiarità dell’azione diplomatica della Santa Sede, che sgorga da uno sguardo di fede. La stessa che è stata di Paolo VI, che ha svolto un’ininterrotta e coraggiosa azione in favore della pace, condotta sotto gli auspici del Vangelo. Se infatti sulla scia della Pacem in terris venne messo dal Concilio un concetto più profondo di pace, è poi con Paolo VI che l’azione nel sostenere la pace con ogni sforzo, e senza trascurare alcun mezzo benché arduo e inaudito, viene a costituire una prassi nella diplomazia pontificia. Dal momento in cui salì al pontificato, Paolo VI non cessò mai di moltiplicare appelli, messaggi e discorsi a favore di questa preminente causa, proprio con un’azione volta a sostenere la pace con ogni sforzo. Per sua volontà, ogni 1° gennaio i cattolici celebrano la Giornata per la pace. Questo puntuale, insistente martellare rientra nel piano di una dinamica, universale pedagogia di pace, a cui si affiancano le iniziative concrete.

Quando il 5 ottobre 1965 Paolo VI parlò davanti all’assemblea delle Nazioni Unite e fece capire chiaramente che era necessario far entrare la Cina comunista nell’Onu la meraviglia del mondo fu grande: credenti e non credenti ebbero l’impressione che il Papa rovesciasse le vecchie, tradizionali regole diplomati- che. Due anni dopo, lo stupore si rinnovò: Paolo VI inviava ai responsabili interessati – compresi Ho Chi Minh e Mao Tse Tung – un clamoroso telegramma, supplicandoli di fare di tutto affinché avesse fine la guerra nel Vietnam; poco dopo ancora, in pubblico, dichiarava di mettere a disposizione degli eventuali negoziati di pace i palazzi del Vaticano. E il 6 gennaio 1967 disse, parlando della Cina: «Vorremmo anche, con chi presiede alla vita cinese odierna nel continente, ragionare di pace, sapendo come questo sommo ideale umano e civile sia intimamente congeniale con lo spirito del popolo cinese». È dunque sulla scia della costituzione conciliare Gaudium et spes, come di tanti messaggi di san Paolo VI e del beato Giovanni Paolo I, che anche papa Francesco con la Santa Sede si muovono in questo solco della grande diplomazia che molti frutti ha dato alla Chiesa alimentandosi con la carità. La Santa Sede continuerà a fare il proprio compito», ha detto il cardinale Pietro Parolin, prendendo la parola al recente summit del Consiglio d’Europa di Reykjavik. È questa la traiettoria che inquadra anche le odierne missioni di pace tra Kiev e Mosca, per una pace giusta e completa.

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