mercoledì 22 agosto 2012
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Il presidente Obama torna a minacciare un possibile intervento militare americano, per ora escluso, qualora il regime di Assad dovesse decidere di far ricorso ad armi chimiche. Non è una posizione nuova, ma è la prima volta che il legame tra l’impiego di armi di distruzione di massa contro i civili e lo scatenamento di un’offensiva aerea da parte del Pentagono vengono messi in relazione così diretta ed esplicita al massimo livello decisionale dell’amministrazione americana. Si tratta di una minaccia francamente non così atterrente per almeno un paio di intuibili motivi. Il primo è la ferma opposizione russa a qualunque intervento militare esterno, a maggior ragione degli Stati Uniti, senza una previa autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, alla quale, ovviamente, il Cremlino opporrebbe il veto. La seconda è che lo stesso regime siriano ha più volte ribadito che ricorrerebbe all’utilizzo dei gas solo qualora venisse attaccato da forze militari straniere ed esclusivamente nei loro confronti.Per quanto la guerra civile in corso nel Paese ci abbia abituato alle peggiori escalation, con barbarie perpetrate da entrambi le parti sia pure su scala diversa, la posizione damascena appare credibile. Quale sarebbe il vantaggio di un simile atto in uno scenario in cui si combatte sempre più strada per strada e casa per casa? Certo semmai sarebbe il danno per il regime, che riuscirebbe a mettere in imbarazzo così grande il suo pressoché unico protettore, al punto da poterlo costringere ad arrivare molto vicino al dover acconsentire, obtorto collo, a quell’intervento esterno che fin qui è sempre riuscito a scongiurare. Ha avuto così gioco facile il vice premier siriano Qadri Jamil nel parlare della ricerca da parte occidentale di un pretesto per invadere il Paese. È un fatto che le parole di Obama hanno ricordato quelle pronunciate dal suo predecessore, George W. Bush, quando proprio nelle armi di distruzione di massa e nell’arsenale chimico di Saddam Hussein (mai trovate né le une né le altre) costruì la retorica che avrebbe portato alla guerra del 2003. Se non ci fossero di mezzo tante decine e decine di migliaia di morti, tra Iraq e Siria, verrebbe da sorridere di fronte all’ironia della sorte. Ma evidentemente è un distacco che non ci possiamo permettere. Resta la domanda del come mai il presidente se ne sia uscito con una affermazione tanto perentoria quanto innocua. E anche qui occorre guardare in due direzioni, peraltro connesse. La prima è quella interna. Mentre si avvicina rapidamente il "martedì successivo al primo lunedì di novembre" in cui si terranno le elezioni presidenziali, Obama appare in crescente difficoltà, cosa che ha dell’incredibile considerando la levatura dello sfidante repubblicano, Mitt Romney. I sondaggi non vanno bene, si riparla del rischio recessione e il presidente deve cercare di recuperare il cartello elettorale che lo aveva portato alla Casa Bianca nel 2008. Un cartello in cui il voto ebraico era stato decisivo. Ed ecco allora che il presidente meno "arabofobo" della storia recente degli Stati Uniti, minaccia il regime di Assad con più veemenza del solito, essendo la Siria l’anello di congiunzione territoriale tra l’Iran e gli Hezbollah libanesi, gli arcinemici di Israele.E proprio qui interviene la seconda direzione, quella esterna, ma collegata alla questione delle elezioni presidenziali. Israele sembra infatti sempre più orientata a tentare la via della "soluzione" di forza nei confronti degli ayatollah e del loro dissennato programma nucleare. Una simile ipotesi, evidentemente, potrebbe essere percorribile solo con la cooperazione americana. Evento piuttosto improbabile finora, ma che lo diverrebbe assai meno qualora si profilasse lo scenario di una resa dei conti generalizzata. Non che Obama ci pensi seriamente, ma è certo che non deve far mostra di escluderla categoricamente almeno fino al fatidico martedì di novembre, se vuole continuare a mantenere la residenza al 1600 di Pensylvania Avenue…

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