venerdì 21 ottobre 2011
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Caro direttore
tanti anni fa avevo una coppia di amici – un lui e una lei – che si volevano bene e decisero di sposarsi. Venivano da famiglie numerose e povere e cercavano nel matrimonio anche un riscatto sociale ed economico. Decisero che pagare l’affitto per tutta la vita era un errore e comprarono un appartamentino, con un angolo per i futuri figli, accendendo un mutuo. Lavoravano entrambi, anche se con uno stipendio non alto, ma ci stavano dentro. Poi, durante i primi anni, fecero anche altri acquisti a rate confidando sul buon andamento dei loro stipendi e del loro lavoro. Un bel giorno nacque un figlio: gli introiti diminuirono e le spese aumentarono. Anche le loro aziende ebbero qualche difficoltà: diminuirono gli straordinari e ci furono brevi periodi di cassa integrazione. Dovettero cercare prestiti da altre parti perché le banche non si fidavano più. E queste altre persone chiedevano interessi molto alti. Dopo un po’ arrivarono a non farcela più, sull’orlo del fallimento del loro progetto di vita. E per non fallire hanno dovuto cambiare il tenore della loro vita, rendersi credibili con qualche amico vero, per poter chiudere con gli strozzini, per ricominciare. La storia è un classico. Peccato che sia anche quella dell’Italia, della Spagna, del Portogallo, della Grecia: abbiamo speso per anni più di quanto guadagnavamo nella speranza di pagare dopo, con lo "sviluppo". Che invece si è fermato. E così i prestiti sono diventati sempre più cari e la nostre credibilità di poterli restituire è diminuita. E chi ci dà i soldi va dicendo che non potremo restituirli, così ci chiede interessi sempre più alti e ci "compra" a basso prezzo. Non abbiamo che il rimedio della coppia mia amica: ridurre il nostro tenore di vita, risparmiare, lavorare seriamente per non essere "licenziati", produrre di più e spendere di meno: tornare credibili. Tutto il contrario della manfrina per la quale tutti hanno un motivo, che esprimono con eleganza, perché non tocchi a loro risparmiare. Ci facciamo gli auguri, direttore?
Camillo Ronchetti
Certo che ci facciamo gli auguri, caro signor Ronchetti. Perché non ci sono solo le ombre del declino e della stagnazione che ingombrano il nostro sguardo e gravano sull’orizzonte comune. Ci sono anche – e Avvenire lo racconta da tempo, ogni volta che può – luci forti e convincenti, buone pratiche, coraggiose iniziative. Luci tenute accese dalle forze buone della nostra società, dalle parti migliori della politica, della pubblica amministrazione, del sindacato e del sistema delle imprese. Forze che confermano "sul campo" che un uso adeguato delle nostre risorse (che non sono affatto povere) e delle nostre capacità e intelligenze è ancora e sempre possibile. Il "ravvedimento operoso" (e metaforico) della coppia di suoi amici ha, insomma, concreti modelli a cui guardare, che non sono d’importazione, ma virtuosamente italiani. Sono tra coloro che, pur senza nascondersi alcuna difficoltà, continuano a credere che noi italiani abbiamo motivi per avere fiducia e possiamo e dobbiamo ritrovarli e condividerli. Chi ci rappresenta e ci governa deve sapersi dare questa priorità, per indicarci un serio cammino comune, per accompagnarci con leggi decise e amiche (devo ancora ripetere che un fisco giusto con la famiglia e una valorizzazione del welfare sussidiario – quello costruito "dal basso" – sono una scelta strategica per il futuro e un saggio contrappeso all’inevitabile tirare la cinghia legato alla stagione dei tagli e dei sacrifici?). I tempi duri – come ricordavo a una giovane lettrice, qualche giorno fa – sono anche i più promettenti. E la ricerca curata da Censis sui cittadini "maturi" (quelli della mia età, per intenderci) che pubblichiamo oggi a pagina 15 conferma che in giro c’è una gran voglia di "costruire" che merita di essere interpretata a dovere.
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