domenica 14 giugno 2009
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In molti, dentro e fuori l’Iran, avevano cominciato a sperarci, a credere che fos­se possibile avere un presidente meno ra­dicale, meno populista e oppressivo al­l’interno del Paese e meno avventuriero verso l’esterno. Nelle ultime settimane, do­po un lungo periodo di apatia e rassegna­zione, sembrava essere tornato l’entusia­smo fra sostenitori di Mir Hossein Mussa­vi, il candidato riformista più accreditato, confortati da sondaggi ufficiosi che lo da­vano in netto vantaggio. Anche le 'aper­ture' del regime, che ha permesso comizi pubblici e infuocati dibattiti televisivi, a­vevano creato alte aspettative. Fino ad al­cuni anni fa, infatti, le elezioni iraniane e­rano tutto sommato democratiche e gli e­siti delle urne veritieri, dato che il regime si accontentava di selezionare i candidati prima del voto. I risultati annunciati ieri, al contrario, la­sciano davvero perplessi. Mahmud Ah­madinejad si conferma presidente con ol­tre il 60% dei voti, nonostante l’altissima partecipazione popolare, l’85% secondo i dati del ministero dell’interno. Chiunque conosce l’Iran sa che conservatori e ultra­radicali rappresentano una minoranza nel Paese; le loro vittorie degli ultimi cinque­sei anni si sono costruite sempre sul non­voto dei riformisti. Lo stesso Ahmadinejad divenne sindaco di Teheran nel 2003 gra­zie a un astensionismo senza precedenti nella capitale. Che oltre l’80% degli eletto­ri si sia stavolta recato al seggio per sce­gliere in massa lui sembra dunque poco credibile. Il presidente può contare su un forte seguito nelle zone rurali e nelle pro­vince, ma nelle grandi città risulta alta­mente impopolare, soprattutto fra i gio­vani, che rappresentano una fetta consi­stente dell’elettorato. Sarà interessante leggere nel dettaglio i risultati, per analiz­zare il voto di Teheran, una megalopoli di più di 10 milioni di abitanti, così da sop­pesare meglio l’ipotesi di manipolazione delle urne. Dal canto suo, Mussavi ha parlato di una farsa, appellandosi all’ayatollah Khame­nei, affinché disponga nuove e libere con­sultazioni. Una richiesta caduta nel vuo­to, dato che il leader supremo ha subito definito la giornata elettorale una festa di popolo, invitando tutti a riconoscere la vit­toria di Ahmadinejad. E per rafforzare il messaggio, la polizia è intervenuta con e­strema durezza contro chi manifestava per i presunti (e probabili) brogli. Non aspet­tiamoci ripensamenti, quindi: Ahmadi­nejad resta a capo della Repubblica islami­ca e il regime può celebrare il sostegno e la legittimità di cui godrebbe. E una cappa plumbea può ridiscendere sulla nazione. Ma ora che è stato rieletto per il secondo mandato, la comunità internazionale che cosa deve aspettarsi da Ahmadinejad? Dal­la sua prima elezione nel 2005 molte cose sono cambiate: l’Iran è geopoliticamente più forte, gli Usa più deboli e meno mi­nacciosi: ora che c’è Obama al posto di Bu­sh, l’obiettivo americano non è più abbat­tere la Repubblica islamica bensì negozia­re e trovare un accordo con essa. La parti­ta sul nucleare sembra quasi vinta per Teheran: possiede la tecnologia per arric­chire l’uranio ed è sempre più vicina ad a­vere la capacità potenziale per assembla­re un ordigno nucleare (sempre ammesso che lo voglia davvero). Intanto le difficoltà occidentali in Afghanistan e in Pakistan e la fragilità irachena spingono ad aperture diplomatiche verso gli ayatollah. Apertu­re che potrebbero dare all’Iran quel rico­noscimento internazionale di cui si sente privato da trent’anni, oltre a grandi aiuti per la propria disastrata economia. Se il presidente fosse un attore raziona­le, questo sarebbe il momento per capi­talizzare, avviando trattative serie con l’America da posizioni di forza. Ma un leader che ha costruito tutta la sua im­magine su posizioni radicali d’antagoni­smo all’Occidente, sull’avventurismo po­litico, sul populismo più becero sarà ca­pace di smentire se stesso e i suoi de­trattori? Di certo, per gli iraniani delusi dalla primavera riformista del presiden­te Khatami (1997-2005), il tetro inverno degli ultraconservatori si annuncia an­cora molto lungo.
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