Non più figli, ma ostaggi e pedine del disamore
sabato 24 novembre 2018

Si è appostato fuori dalla casa cui per ordine del giudice non doveva più avvicinarsi. Ha atteso che la moglie uscisse, sola. Allora è entrato, e ha appiccato il fuoco. Non ha visto i due figli di 11 e 4 anni, in quelle stanze? La moglie, tornando, affrontando le fiamme è riuscita a salvare il più piccolo. Ma il maggiore è morto soffocato. Marco, si chiamava: morire a 11 anni, travolto dall’odio del padre per la madre. L’uomo non ha cercato di uccidere lei, ma di uccidere i figli: intuendo che così l’avrebbe distrutta e però lasciata viva, trafitta per sempre dal peggiore dei dolori. Quanto può essere profondo l’odio, fra due che si lasciano?

Sgomenta, la tragedia di Sabbioneta, perché l’uomo sembra dimentico che quei bambini erano i suoi figli. Che li aveva visti nascere e crescere. Poi, nel cedere del matrimonio, nel crescendo di violenze cui sottoponeva la moglie, l’amore paterno ha subito una terribile mutazione. Non erano più i “nostri bambini”: forse preferivano la mamma, e del padre cominciavano ad avere paura? Non più i nostri bambini, ma pedine sulla scacchiera di un gioco impazzito. Colpire loro, dare fuoco alla casa, solo per annientare la madre.

Marco di Sabbioneta era un bel ragazzino di 11 anni, biondo, che nelle foto su Facebook la mamma stringe con orgoglio. Era in quell’età che germoglia, in cui un figlio comincia appena a farsi uomo. «Cucciolo mio», lo piange lei ora, disperata. Atroce “punizione”: strappare, a una madre, il cuore.

Come si arrivi a un odio così sedimentato, stratificato, abissale, è cosa che ammutolisce. Ma il gesto del padre mantovano, pure nella sua crudeltà inaudita, non parte dal nulla. Non è inconsueto, quando una coppia si divide con rancore, vedere come figli fino ad allora amati, nel conflitto aspro, diventino oggetti. Oggetti di contesa in interminabili diatribe davanti ai giudici, oggetti di ricatti affettivi.

Figli tagliati a metà, figli con lo zainetto in spalla che il venerdì sera aspettano davanti al portone che passi il papà – lui non vuole salire a salutare la mamma. Figli, anche, sottratti, e con estrema difficoltà restituiti. Fino a renderli puri strumenti per far male all’altro. Bambini come cose. Nella dimenticanza assoluta del loro essere, fin dall’inizio, persone: e, fondamentale, non “nostri”. Non “roba nostra”: ci sono solo stati affidati.

Un odio deflagrante come una bomba ha portato un padre a dar fuoco alla sua stessa casa, al suo sangue. A aspettare in disparte che la moglie tornasse, e capisse, a compiacersi del suo urlo di disperazione. (Non sentiva, lui, le grida dei bambini?)
Siamo molto oltre ciò che è umanamente comprensibile, in questo padre sfigurato da un odio immane.

E tuttavia, in proporzioni infinitamente minori, quante coppie civili e tranquille si dividono e, dentro a un educato trattenuto rancore, immettono i figli in una spirale di piccole ripicche, sottili vendette, giochi crudeli (“ami più papà o me?”) Soldi magari, e maggiore libertà, per conquistarsi la preferenza di un figlio adolescente. Perché sia “tuo” e non “suo”. Non creature di cui cercare il bene, ma pedine in un’amara partita. Poveri ostaggi di ciò che resta di un amore.

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