Non dimenticate né riducete il senso di quel sacrificio
domenica 25 ottobre 2020

A distanza di giorni dal terribile fatto, mentre l’emozione si stempera e altre notizie incalzano, anche a proposito della vita della Chiesa italiana e universale, è opportuno e persino indispensabile tornare a riflettere sul martirio di don Roberto Malgesini, prete e uomo di carità. Ha molto meravigliato anche me, infatti, che accanto alle parole accorate di tanti credenti, sacerdoti, vescovi e a quelle altissime di papa Francesco siano apparse, soprattutto in rete, valutazioni rispettose, ma riduttive del sacrificio del sacerdote assassinato a Como da uno dei suoi assistiti, quasi che l’impegno sociale che gli è costato la vita non dipendesse dalla sua missione sacerdotale e che anzi quello avesse in qualche modo oscurato questa.

Quasi che il suo impegno umanitario non fosse direttamente l’effetto della sua vocazione. Come se le giornate e le azioni di carità di don Roberto – e questo giornale lo ha portato in evidenza – non cominciassero sempre nella preghiera e nel rapporto cuore a cuore con Cristo. Ancor più mi ha meravigliato che chi ha insistito in questo approccio si sia completamente dimenticato che l’impegno per i poveri e per gli ultimi ha sempre caratterizzato la Chiesa fin dalle sue origini. Basti citare rapidamente la breve vita di san Lorenzo, narrataci da Iacopo da Varazze. Invitato con arroganza dal procuratore romano, pronto a martirizzarlo, a portare il giorno seguente nel pretorio le ricchezze della Chiesa che amministrava, Lorenzo si presentò puntualmente alla guida di un carro, sul quale aveva fatto salire anziani, malati, storpi, miserabili, spiegando al procuratore che quelle erano le ricchezze, alle quali la Chiesa mai avrebbe rinunciato.

Di episodi simili, che coinvolgono tutte le altre opere di misericordia temporale, sono piene le cronache monastiche e religiose, e davvero stupisce che le si debba continuare a rammentare. Portare la Comunione a un morente, mettendo a volte a rischio la propria vita, come durante la Rivoluzione francese, rileva più che portargli del cibo. Ma il cristiano crede che l’ostia sia vero cibo e il sangue del calice sia vera bevanda. Di conseguenza, dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, nel nome di Gesù Cristo, è una prassi che giunge alle soglie del misticismo.

Resta chiaramente la domanda sul perché tanto spesso l’impegno sociale di sacerdoti, di consacrati e di tanti e tanti volontari laici venga così platealmente equivocato fuori e dentro la Chiesa. Non è semplice metterne a fuoco le ragioni, ma una tra le tante potrebbe essere la più esplicativa: la secolarizzazione ci induce, ormai da decenni, a pensare che l’impegno umanitario non debba necessariamente nascere dalla forza dello Spirito, ma che abbia bisogno semplicemente di radicarsi nella 'buona volontà '. Una volontà prodotta dal cervello, dall’ammasso dei nostri neuroni, capaci di attivare, a seconda dei casi, stati d’animo psicologici benevoli e affettuosi (persino fino all’estremo), ma anche ostili e malevoli (fino all’odio). Il gelo che sta pervadendo la nostra epoca, come epoca della secolarizzazione, che pure attiva e produce molto spesso splendide pratiche solidaristiche, sembra incapace di dare autentico calore alle relazioni fraterne, trasformandole in corrette e funzionali pratiche burocratiche. Ma la burocrazia (quando le cose vanno bene) dev’essere orientata alla giustizia. E la giustizia si realizza compiutamente solo nella misericordia. E don Roberto Malgesini è stato, prima ancora che testimone di umana giustizia, testimone della misericordia di Dio.

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