
È tardi e, nel silenzio della notte, sto pensando ai miei pazienti, a cominciare da Paolo che, nelle prime ore dell’alba, è tornato alla casa del Padre: è stato tutto così veloce, poco più di un mese fa abbiamo attivato le cure palliative domiciliari per il controllo del dolore, della difficoltà respiratoria, della fatica indotti da un tumore polmonare scoperto per caso in pronto soccorso, dove Paolo si era recato proprio per alleviare quel dolore pazzesco, “da morire”, che lo affliggeva da pochi giorni. Tumore avanzatissimo, nessuna possibilità di guarigione ma solo di cura, e questo non è poco perché inguaribile non è sinonimo di incurabile e molto bisogna cominciare a fare quando non c’è più nulla da fare, come diceva Cicely Saunders, fondatrice del movimento Hospice e mia grande insegnante insieme a Vittorio Ventafridda, che iniziò a parlare di terapia del dolore e cure palliative intorno agli anni Ottanta, all’Istituto dei Tumori di Milano, dove ebbi la fortuna di conoscerlo mentre frequentavo la scuola di specializzazione in Oncologia. Le cure palliative esistono quindi da anni ma, paradossalmente, non sono ancora conosciute dai più. A tutt’oggi vengono spesso ritenute cure di fine vita, da proporre solo ai pazienti neoplastici negli ultimi giorni. Ma, se questo era vero all’inizio, ora non è più cosi: le cure palliative sono proposte a tutti quei pazienti con una malattia inguaribile che condiziona gravi insufficienze a livello di tutti gli organi principali – il cuore, i polmoni, i reni, il fegato, il sistema nervoso in toto – e che hanno un’aspettativa di vita sino ai 12 - 24 mesi. Sono cure che non guariscono ma tutelano la qualità della vita che resta.
La legge 38 del 2010 garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore per tutti i cittadini, riconoscendo loro il diritto di non soffrire inutilmente e la possibilità di ricevere assistenza adeguata in tutte le fasi della malattia, in ospedale o al domicilio, coinvolgendo e supportando nel percorso di cura non solo il paziente ma anche i suoi familiari. La legge prevede la creazione di reti integrate di assistenza, favorendo la collaborazione tra ospedale, territorio e servizi domiciliari, e sottolinea l’importanza della formazione specifica per i professionisti sanitari coinvolti in questo ambito. Nel 2017 l’aggiornamento dei Livelli essenziali di assistenza ha specificato ulteriormente e ampliato l’offerta delle cure palliative, includendo anche l’assistenza a pazienti non oncologici e ai minori, migliorando l’integrazione tra i servizi. Nonostante tutto questo, lavoro il grande pregiudizio sulle cure palliative è rimasto: spesso, quando ci rechiamo a casa dei pazienti, veniamo visti come i funzionari delle pompe funebri, la figlia di una paziente ci ha paragonato ai coniglietti che si avvicinano con la bara al letto di Pinocchio nella famosa fiaba di Collodi. Più volte, negli incontri con i miei collaboratori, ci chiediamo perché queste credenze siano ancora così dure a morire: dove abbiamo sbagliato? È un servizio importante, assolutamente gratuito, che davvero si prende cura a trecentosessanta gradi della persona ammalata, gestito da una équipe che prevede la figura del medico, dell’infermiere, dell’oss, del fisioterapista, dello psicologo, dell’assistente spirituale e di altri attori che possano aiutare a gestire nel modo migliore possibile un periodo particolare della vita, fornendo farmaci, garantendo una reperibilità continua, 24 ore su 24 ore per sette giorni la settimana, e spesso anche un supporto nella elaborazione del lutto, quando questo si verifica: perché può anche capitare che il grave cardiopatico mandato a morire a casa dall’ospedale riesca a stabilizzarsi con le nostre cure recuperando insperatamente un buon tenore di vita.
Forse, alla base, c’è il rifiuto della morte, della nostra morte, il non volerne parlare. Eppure sarebbe così importante rifletterci, potrebbe aiutarci a vivere più intensamente e nel modo migliore. Io non sono una filosofa, sono solo un medico che fa questo lavoro da 42 anni – i primi 20 come oncologo medico, poi 19 in hospice, i successivi 3 al domicilio –, e spero di continuare a farlo perché è il lavoro più bello del mondo. Il contatto quotidiano con la persona gravemente ammalata mi ha insegnato e continua a insegnarmi moltissimo, crea emozioni, induce riflessioni, pone domande che spesso necessitano di essere condivise. Perché solo partecipando ad altri l’esperienza dello stare con l’ammalato e la ricchezza che ne deriva possiamo provare a sentirci parte di un destino comune, nel quale la morte c’è ma non fa paura, perché lo stare insieme nel dolore apre le porte alla speranza, a qualcosa che può ancora venire, nonostante tutto: qualcosa che darà un senso alla pena infinita di oggi, qualcosa che aspettiamo, insieme, perché la speranza, non l’illusione, rimane sempre. Resiste, e aiuta ad andare avanti.
Medico palliativista