No al lavoro che uccide
sabato 7 settembre 2019

I volti, alcuni giovanissimi, quasi tutti sorridenti, fanno pensare alle foto di una rimpatriata fra amici, una di quelle serate in cui si ride e scherza, davanti a una pizza fumante, e niente, proprio niente, sembra gravare nella vita di ognuno. Invece. Le foto non sono il corredo di una serata ben riuscita, ma un’agghiacciante carrellata di istantanee da tenere schiacciata sugli occhi, da ricordare ora e sempre. Sono i volti di chi, dall’inizio di questo 2019 e sino alla fine di agosto, ha perso la vita durante il proprio lavoro in Lombardia. I numeri – raccolti e documentati dalla Cisl regionale – sono impressionanti, lasciano un senso di stordimento. Dall’inizio dell’anno sono morte 97 persone durante l’esercizio della propria professione. 97 persone.

Ogni morte ingiusta pesa, ovvio, comunque e ovunque avvenga. Ma alcune di più. E il fatto che a detenere il primato delle morti di lavoro sia la regione che più di tutte testimonia il progresso nel nostro Paese, la Lombardia, non fa che aumentare l’incredulità. Un corto circuito che ben testimonia, purtroppo, un dato di fatto: in Italia il lavoro è ancora luogo di morte. Che sia Nord o Sud fa poca differenza.

I motivi di questo inaccettabile anacronismo sono tanti, ma partono tutti da un dato comune. Esistono realtà produttive che continuano a considerare la sicurezza dei propri dipendenti, così come la formazione e la prevenzione, un costo troppo elevato. Perché l’unica cosa che conti veramente, alla fine dei giochi, è sfoderare un numero migliore dell’anno precedente nel proprio bilancio. Perché l’unico traguardo è questo.

Ma non importa, ora, quello che sarà scoperto e certificato, e si spera condannato da un giudice. È quel numero, sono quelle 97 persone che chiedono ascolto, che vogliono ancora essere guardate, loro e la loro storia, è questo esercito di silenti che reclama l’attenzione che gli si deve, perché il loro sacrificio non diventi una scarna statistica dell’anno 2019, ma rimanga quel che è nel profondo: il sacrificio di padri e figli, sorelle e mogli, tutti strappati via prima del tempo.

Alcune storie chiedono di essere ricordate, di rimanere accese nella nostra memoria. I tanti giovanissimi, come Marco Balzarini, magazziniere di 28 anni, o Lorenzo Bano, di anni 29, meccanico, o quelli più grandi, a un passo dalla pensione, dopo anni e anni di lavoro e fatica, Luigi Roncati, 63 anni, Amos Turla, 61.

Ai loro nomi corrispondono famiglie spezzate, promesse rimaste sospese, come quelle di Gabriele di Guida, appena 25enne, che voleva comprarsi casa per andare a vivere con la sua fidanzata. Basta avvicinarsi di poco e ci si rende conto che quel numero, quell’agghiacciante 97, è niente rispetto alla grandezza di tutta la vita annientata da un momento all’altro.

Provate solo per un istante a immedesimarvi nella vita di chi ha baciato sulla porta di casa un figlio, che gli dà appuntamento per cena dopo quella che dovrebbe essere una normale giornata di lavoro, vivete per un attimo nel cuore di quella madre che scoprirà il destino che il mondo ha riservato al proprio figlio. Questo si chiede: affondate nella vita di queste persone.

Andatevi a cercare i loro volti, cercate di imprimere nei vostri occhi i loro occhi, fate sgorgare dal petto la parola che vuole essere pronunciata. Pregate per loro, per le loro famiglie, questo nel profondo è quello che ci chiedono. E chi ha potere e dovere – vale la pena di ripeterlo all’alba di un nuovo governo – lavori, lui, per cambiare le cose.

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