Cancellata la poesia-preghiera davanti all'Oncologico di Palermo
sabato 29 febbraio 2020

Una preghiera era stata scritta in vernice bianca sull’asfalto sul marciapiede di un ospedale, a Palermo, davanti al reparto di Oncologia. Quel cammino che ogni giorno tanti malati percorrono, chiusi nei loro pensieri e nella loro domanda: guarirò? Che sarà di me, dei miei cari, dei miei figli? Ma, in una notte, la preghiera sul marciapiede è stata cancellata. Dalla direzione dell’Ospedale Civico: mancava l’Autorizzazione, è stato detto – supponiamo, con la 'A' maiuscola.

Una solerzia ammirevole, in un’Italia che vede i suoi muri imbrattati di svastiche, minacce agli ebrei, insulti ai neri, scarabocchi insensati e slogan e segni che richiamano assassini rossi e neri dell’altroieri, e così tanti che si fatica a rimuoverli. Invece, la preghiera di Palermo è stata fatta sparire subito. Come qualcosa di impronunciabile. La storia: annullato per il coronavirus un evento culturale in programma all’Ospedale Civico, la scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa, medico, guarita da una severa forma di cancro, aveva dedicato i suoi versi ai malati dell’ Oncologico.

Un’amica artista li aveva copiati sul marciapiede, chiari sul grigio piombo dell’asfalto: ' Ave Maria prega pi tutti chiddi ca si trovano ’nta sta via. Ave Maria prega pì mia', cominciavano. E per qualche giorno quelle parole che si srotolavano sulle scale e fino all’ingresso del reparto avevano accompagnato i pazienti. Che si fermavano, incuriositi, poi passo dopo passo seguivano lo snodarsi delle strofe. Riconoscendo una preghiera. Qualcuno si commuoveva. Magari, si sentiva un po’ meno solo. ' Ave Maria, prega pì mia e per chi cammina nta sta via', continuavano le parole bianche. Poi, alludendo alla chemioterapia: ' na botta di vilenu, uno scruscio di vento, sinni caderu ciuri e capiddi (una botta di veleno, una folata di vento, sono caduti i fiori e i capelli….) ' Ave Maria prega pi mia c’ancora non spunta chista via'.

Ancora non spunta la via, raccontavano dolorose le parole sull’asfalto, testimoniando quanto lunga e buia è la notte del cancro, prima che si intravveda una luce. Ma infine, si leggeva nei versi, dopo una caparbia estrema lotta il male è vinto: la bocca rossa come una ciliegia, i capelli tornati fitti dicono della gioia di ritrovare il proprio volto di donna. ' Ave Maria io ti ringrazio. Stretta la foglia larga è la via. Ave Maria, io sugnu arrè mia' (io sono di nuovo mia). L’invasore, l’esercito cieco e proliferante si è fermato, sono guarita. Ogni guarigione, per chi si sentiva condannato, è un miracolo. Le parole tracciate per terra a Palermo concentravano nella musica diversa e a tratti aspra del dialetto siciliano il primo smarrimento, l’implorazione, il corpo spogliato dalla chemio, l’angoscia che da quel decadimento non ci fosse ritorno.

Una storia di anni, di esami, di terapie, di mattine fredde d’inverno e torride giornate d’estate che si ripetevano su quel marciapiede. Passi perduti e passi che tornavano, alcuni ogni giorno più leggeri e veloci. Un mondo di desiderio di vita, e di paura, rappreso nel calpestio di quel breve viale. Una preghiera ci stava bene, lì davanti. Una preghiera in cammino con gli uomini e le donne e i bambini dell’Oncologico. Magari per qualcuno l’unico spiraglio di speranza, in giornate plumbee. Non faceva male a nessuno, l’Ave Maria del Civico di Palermo, non offendeva nessuno.

Ma, hanno obiettato fermi dalla Direzione, mancava l’Autorizzazione. Nell’Italia in cui i vandali scrivono sui muri le loro bestemmie antiebraiche e razziste, impuniti, la mancanza di Autorizzazione colpisce un’Ave Maria. Cancellata d’urgenza, con una striscia più nera sull’asfalto: come un grave errore su un quaderno di scuola. Forse, in realtà, solo perché era una preghiera: cioè una domanda all’Altro da noi, invocazione di una salvezza che non ci diamo da soli. Forse questo è il tacito imperativo violato: che dei malati di cancro, oltre che affidarsi alla scienza, domandino aiuto alla Madonna, come figli smarriti. È questa domanda, è l’umiltà dell’inginocchiarsi, di tutti i gesti per qualcuno oggi il più intollerabile.

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