
Se dovessimo considerare manzonianamente la Storia come manifestazione della Provvidenza divina, potremmo dire che questi primi mesi dell’Anno Giubilare, con il loro susseguirsi di eventi ordinari e straordinari, ci permettono solo di dire «E ‘n la sua volontade è nostra pace» ( Paradiso III 85), verso profetico concluso dalla parola che ha aperto il pontificato di Leone XIV. La Divina Commedia costituisce la profezia di un cristiano umiliato ed offeso nella sua Fede, ma non vinto nella Speranza del compimento dell’itinerarium in Deum, confidente e aperto alla Carità verso di noi lettori della sua opera. La Speranza, parola-chiave del Giubileo 2025, diventa nella Commedia scelta profetica. La “tempesta” culturale e planetaria in cui viviamo, indica quel contrasto di sentimenti e passioni già avvertito da Dante: «Quale argomento di ragion raffrena, / ove tanta tempesta in me si gira?» ( Rime CXVI) che può essere affrontato con la speranza de l’Altezza ( Inferno I, 54), evocata proprio nella selva oscura. Tutta la Divina Commedia non solo è attraversata dalla Speranza profetica ma da essa riceve il suo interiore dinamismo. Si tratta di un dinamismo teologico che si compie davanti a san Giacomo , il Magister spei che fa risonar la spene in questa altezza ( Paradiso XXV, 31), ma riguarda l’intero perimetro delle virtù cardinali e teologali, generatosi da «Spes autem non confundit, quia caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum sanctum, qui datus est nobis» («La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato») ( Rm, 5,5 ), in cui san Paolo connota precisamente la natura della speranza cristiana , inducendo Dante alla distinzione tra le Virtù cardinali, le morali vertudi ( Conv. IV, XVII) di derivazione aristotelica e le Virtù teologali alle quali l’Essere umano « propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta» ( Mon. III,xv,7).
La speranza è il fiore della mente umana e, pertanto, fra i cristiani, non c’è nessuno che sia più ricco di Dante di codesta Virtù, poiché gli è stato concesso di salire vivo in Cielo: «Spene , diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto» ( Paradiso XXV, 67-69). Codesta Verità, continua Dante, «la distillò nel mio cor pria» il salmo di Davide «Sperino in te» ( Ps. IX, 11) e poi le esortazioni dello stesso san Giacomo nella sua Epistola. Da Davide Dante eredita lo stretto rapporto tra la nozione di Dio e la Speranza, sottolineando il concetto teologico essenziale che la lega strettamente alla Fede (Tommaso, SummaTh. II,ii,Qu.2,art.7). Pertanto, nel precisare il rapporto tra morale e fede, Dante si richiama al duplice fine indicato da Dio: quello della beatitudine terrena, da raggiungere esercitando le virtù cardinali, e quello della beatitudine eterna, esercitando le virtù teologali. Nella Commedia il “concordismo” aristotelico-tomistico riguarda tutte le 7 Virtù, spiegate da Virgilio, nella descrizione del Limbo: «Quivi sto io (...) con quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante». ( Purgatorio, VII, 31-36), ma l’allegoria umana e divina delle Virtutes è mirabilmente rappresentata in Purgatorio XXIX, mediante la processione mistica delle Tre Donne danzanti, alla destra, e delle Quattro, alla sinistra, del Carro della Chiesa: «Tre donne in giro da la destra rota / venian danzando; l’una tanto rossa / ch’a pena fora dentro al foco nota; / l’altr’era come se le carni e l’ossa / fossero state di smeraldo fatte; / la terza parea neve testè mossa; / e or parean da la bianca tratte, / or da la rossa; e dal canto di questa / l’altre toglien l’andare e tarde e ratte» ( Purgatorio XXIX, 121-129 ).
Sia le Cardinali che le Teologali seguono il Carro della Chiesa, ma per le teologali Dante insiste sul colore simbolico e affida il ruolo di guida alla Carità seguendo san Paolo(I Cor., XIII, 7 e 13). L’inscindibilità delle tre Virtù teologali assume valore trinitario attraverso i tre “esami” ai quali Dante sottopone sé stesso nei canti XXIV-XXVI del Paradiso, scegliendo come Magistri san Pietro per la Fede, san Giacomo per la Speranza e san Giovanni per la Carità. Con la Professione di Fede ( Paradiso XXIV) Dante indica in due terzine non solo il significato della Fede ma anche il ruolo che codesto dogma ha per la Chiesa di Roma: «E seguitai “Come il verace stilo / ne scrisse , padre, del tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo, / fede è sustanza di cose sperate / ed argomento de le non parventi» ( Paradiso, XXIV, 61-65) (san Paolo: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede»; Ebrei XI, 1).
La Fede è il principio su cui si fonda la nostra speranza della vita eterna e l’argomento onde impariamo a credere quelle verità che non sono percepite dai sensi: «Le profonde cose / che mi largiscon qui la lor parvenza, / alli occhi di la giù son sì ascose, / che l’esser loro v’è in sola credenza, / sopra la qual si fonda l’Alta Spene» ( Paradiso, XXIV, 70-74). Fede e Speranza sono connesse “di necessità” nel cammino di conversione, che può diventare profezia: «Se mai continga che ‘l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra / (...) però che nella fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’io» ( Paradiso, XXV, 1-3 e 7-11). La coscienza di aver operato secondo le Tre Teologali permette a Dante di concepire la speranza profetica che il suo poema sacro riceverà il culto che merita, il Culto dei Papi. Lo sfondo teologico del pensiero di Dante fu ben compreso dal primo Pontefice che avviò nel Quattrocento il culto dell’Alighieri, Pio II Piccolomini (1458-1464), poiché già nel Concilio di Costanza (1414-1418), dove si metteva in discussione l’autorità del Papa a Roma, il vescovo Giovanni Bertoldi da Serravalle, su richiesta dei prelati inglesi Niccolò di Budwich e Roberto Halam, per diffondere la “teologia dantesca” aveva prodotto la prima traduzione latina della Commedia, dotandola di un commento denso dei richiami di Dante al rinnovamento ecclesiale. Con codeste premesse, la profezia di Dante attraversa i secoli e arriva a Leone XIII ( 1878-1903), il cui dantismo da una parte coincise con la fine del potere temporale dei Papi dall’altra si “tradusse” nella dottrina sociale della Chiesa, espressa a chiare lettere nella Rerum novarum. Neotomismo e Dantismo costituirono i binari sui quali si mosse la politica culturale di papa Pecci. Fin dagli anni Venti e Trenta del XIX secolo si era affermato, in Europa e soprattutto in Italia, un rinato interesse per la Scolastica e per il pensiero di Tommaso d’Aquino (Serafino Sordi, Luigi Taparelli d’Azeglio, Matteo Liberatore, Gaetano Sanseverino), trovando nel periodico dei Gesuiti Civiltà Cattolica, fondato nel 1850, un’autorevole voce teologica.
Ma il vero iniziatore del movimento neotomista fu papa Leone XIII. Con l’enciclica Aeterni Patris (4 agosto 1879), il Santo Padre invitava teologi e cristianità allo studio della Summa di Tommaso d’Aquino, intesa come forma organizzata di conoscenza razionale, finalizzata a Dio. Nel 1880 l'istituzione di un'Accademia tomistica, con sede a Roma, confermò la ferma volontà del Pontefice di dare impulso agli studi sul Santo teologo e sulle dottrine collegate al suo pensiero. Leone XIII affiancò neotomismo e dantismo, realizzando il suo progetto pastorale: edizione dell'opera omnia di Tommaso (leonina), nomina del gesuita Giovanni Maria Cornoldi presso la segreteria dell'Accademia romana San Tommaso d'Aquino. Fra il 1881 e il 1883 papa Leone aprì ai lettori sia la Biblioteca Vaticana che l’Archivio Segreto, attuando la revisione dell’Indice dei Libri Proibiti (catalogo del 1564) per escludere e rendere fruibile il trattato Monarchia di Dante. L’operazione rimandava al mittente chi aveva impugnato il trattato dantesco come principale documento anticlericale di Dante e sarà ulteriormente avvalorata dalle encicliche Diuturnum illud (29 giugno 1881), condanna del mancato riconoscimento da parte dello Stato laico liberale dell’importanza della religione, e Immortale Dei (1° novembre 1885), ancora sui rapporti tra Stato italiano e Santa Sede.
Il 15 gennaio 1887 papa Pecci fonda l’Istituto Leoniano di Alta Letteratura (oggi Pontificia Università Lateranense), all’interno del quale affida a monsignor Giacomo Poletto la cattedra di Teologia dantesca, prima cattedra di studi danteschi nata in Italia. Fu proprio Poletto a ricostruire il rapporto tra il dantismo di Leone e la Rerum novarum (15 maggio 1891) nel volume La riforma sociale di Leone XIII e la dottrina di Dante Alighieri (Siena 1898): il complesso impianto conoscitivo dell’enciclica affonda le radici nel pensiero politico dantesco. Per Leone XIII è necessaria e legittima la separazione e l’autonomia dei due poteri, quello spirituale e quello temporale, entrambi di origine divina. Lo Stato deve occuparsi e preoccuparsi del potere temporale, la Chiesa di quello spirituale, non in contrasto ma in armonia con lo Stato medesimo. Entrambi concorrono al Bene comune poiché sia le virtù spirituali che quelle civili si fondano su basi rispettivamente metafisiche e morali. La fine del potere temporale della Chiesa diede inizio a un’epoca nuova già profetizzata da Dante. Col suo progetto politico, culturale e pastorale, Leone XIII dimostrò quanto la teologia dantesca fosse un formidabile strumento di rinnovamento della Chiesa nel suo incontro con la modernità. Testimoniare la Fede è un affascinante cammino profetico di Speranza verso Dio, anche e soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo: «La costruzione di una cultura ecclesiale ci si presenta come un dovere (...) e possiamo solo dire con umiltà “Sono vere tutte le tue vie, Signore”» (P. Florenskij, La concezione cristiana del mondo, 2019).