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Foto Ansa
Se ci domandiamo in che cosa dobbiamo sperare, oggi, una risposta subito s’impone. È una risposta semplice, diretta. Dobbiamo sperare che una speranza continui a esserci, che continui a esserci nel mondo in cui viviamo, fra gli uomini e le donne che lo abitano. Certo: può sembrare strano che la prima cosa in cui sperare, oggi, è che ci possa essere ancora spazio per la speranza. Sembra la solita sottigliezza filosofica.
Ma, in un mondo dominato da guerre in cui non c’è pietà per nessuno e da violenze sempre più quotidiane e diffuse, pare davvero che non ci sia più motivo per sperare che le cose vadano diversamente. Bisogna dunque cominciare da qui, da questa situazione di fatto. Bisogna capire la mentalità che vi sta dietro, affrontarla e vedere se, anche in tale situazione, la speranza può far valere le proprie ragioni. Oggi in molti, troppi luoghi predomina l’indifferenza. L’indifferenza è una mentalità che tutto uniforma, tutto appiattisce. Come dice la parola stessa, elimina le differenze. In tale prospettiva non viene più riconosciuta, ad esempio, la specificità delle persone, i loro particolari caratteri e talenti. Siamo tutti individui isolati, chiusi nelle nostre bolle, pronti al consumo. Certo: in questo scenario ognuno rivendica le proprie esigenze, di solito più di apparenza che di sostanza. Ma tale rivendicazione, invece che differenziarci gli uni dagli altri, in realtà conferma il fatto che ci pensiamo tutti allo stesso modo, cioè come individui che hanno il diritto di veder appagato quello che vogliono.
E' il modo in cui, a ben vedere, viene fraintesa oggi l’idea di felicità. Invece di considerarla un bene comune, qualcosa che si ottiene solo insieme agli altri, la si concepisce come un possesso privato. Di più. La si riduce a un’emozione, a un semplice godimento individuale. Beninteso: non c’è niente di male nelle emozioni, nel godimento. Ma noi non siamo nati solo per questo. E soprattutto non possiamo ritenere, come spesso accade, che ogni cosa del mondo valga solo nella misura in cui è destinata a soddisfarci. Perché, se fosse così, davvero gli altri m’interesserebbero unicamente in quanto corrispondono a ciò che chiedo. Per il resto, appunto, mi sarebbero indifferenti. Ecco: se adottiamo questo modo di pensare uniforme, autoreferenziale, ciò che accade agli altri proprio non ci importa. Inoltre, se gli altri non mi danno quello che voglio, è sufficiente almeno che mi lascino in pace, o che mi lascino il mio spazio. Infatti, nella misura in cui la libertà altrui finisce dove inizia la mia, e nella misura in cui io questa libertà ho comunque il diritto di esercitarla, anche con forza, è ovvio che la libertà degli altri non ha valore. E si comprende perché la cronaca è piena di episodi violenti. Le esigenze altrui non sono prese in considerazione, per gli altri non c’è rispetto.
La speranza è nemica dell’indifferenza. Riconosce le differenze fra le persone e fra le cose. Le sa apprezzare. Sa che non tutto è uguale. Ci sono cose migliori e cose peggiori, qualcosa che ha più o meno valore. Per noi, certo, vogliamo il meglio. E magari anche per i nostri cari. Lo desideriamo, lo anticipiamo: lo speriamo, appunto. Ma ciò che ha valore, ciò che reputiamo migliore, non riguarda solo l’appagamento delle nostre esigenze individuali. La diversità degli altri, delle persone e delle cose, è una ricchezza anche per me. Se lo riconosco, mi accorgo non solo che di tali differenze devo tenere conto, ma anche che con gli altri posso costruire qualcosa. Mi accorgo, soprattutto, che insieme possiamo iniziare un cammino comune. È un cammino che mi tira fuori dalla mia bolla individuale, che mi fa andare oltre l’istante in cui mi trovo. La speranza, basata sulla fecondità della differenza e sul riconoscimento della necessità di costruire relazioni apre infatti al futuro. Mi toglie dalla chiusura in me stesso e dalla necessità di essere inchiodato a un istante che non passa mai. M’impedisce di credere che l’unico tempo della vita sia solo un presente effimero: un presente che dura dieci secondi, tutti da godere, come recita il testo di una canzone. Perché in questo presente, in realtà, noi viviamo male. Non ha prospettive, è qualcosa in cui restiamo bloccati. Queste prospettive possiamo allora cercarle, possiamo andare oltre: verso qualcosa di diverso che ci può completare. È in questa sporgenza da noi stessi che emerge il futuro. È nell’essere sempre al di là di sé che ci accorgiamo che il tempo scorre, che ciò che ci può capitare è migliore o peggiore di ciò che ci è capitato prima. Qui non c’è più spazio per l’indifferenza. Qui s’annuncia la speranza.
La speranza s’intreccia con il desiderio. Il desiderio non è un bisogno: qualcosa che si può appagare e che, una volta appagato, non si ripresenta più. E non è neppure qualcosa che crediamo di poter soddisfare con l’acquisto di un certo prodotto, mentre sappiamo bene che, una volta che lo abbiamo consumato siamo spinti a cercare prodotti sempre nuovi. Il desiderio è qualcosa di diverso: è il motore della speranza. È ciò che ci spinge fuori di noi. Lo fa incessantemente, non ci lascia tranquilli. E, certo, in tale situazione si annuncia un’inquietudine di fondo. Ma emerge anche qualcosa d’importante, che ci riguarda. Sperimentiamo una sproporzione. È la sproporzione dovuta al fatto che c’è qualcosa d’infinito che abita in noi, che invece siamo esseri finiti. Ecco perché siamo sempre costretti a gettare ponti verso gli altri, verso il futuro. Non è sempre facile. Lo abbiamo visto: è scomodo, inquietante. Essere costruttori di pace è complicato. Dobbiamo prima o poi affrontare un conflitto, con gli altri o, anche, con noi stessi. Non sempre, però, il conflitto è da condannare. Il conflitto spesso fa crescere: pensiamo per esempio ai rapporti fra genitori e figli. Basta solo che non distrugga le regole della convivenza. Basta solo che io, alla fine, non voglia annientare chi mi si oppone. Basta solo che il conflitto non diventi cieca violenza.
La pace, dunque, non è qualcosa in cui possiamo solo sperare, astrattamente. È invece la conseguenza di quell’attitudine in cui pure la speranza si radica. Si tratta dell’apertura agli altri, dell’impegno a desiderare il meglio per me e per tutti, infinitamente. Per questo motivo la pace è qualcosa che si costruisce. Per questo coloro che s’impegnano a costruirla sono detti beati. La speranza, insomma, non è una sterile attitudine mentale, un rivolgere gli occhi al cielo attendendo che qualcuno venga in nostro soccorso. È un compito concreto, che dobbiamo mettere in opera, attraverso l’apprezzamento delle differenze e la pratica delle relazioni. Lo si può fare attraverso un agire concreto a sostegno degli altri, soprattutto di quelli che hanno bisogno di noi. Lo si può fare anche riflettendo su ciò che siamo e che facciamo, e cercando di cambiare mentalità. In tal modo il nostro agire diventa significativo. C’è infatti chi costruisce la pace attraverso le proprie azioni, realizzando la speranza e contribuendo a far sì che il futuro divenga presente. C’è anche chi lo fa delineando le condizioni per una cultura di pace, attraverso parole che lasciano il segno, con la sua testimonianza, offrendo un discorso di verità.
Ecco allora che la risposta alla domanda da cui siamo partiti – cioè l’idea che oggi quello che possiamo sperare è anzitutto di conservare la speranza in noi e di praticarla – non è un discorso astratto o un gioco di parole. È l’espressione di un impegno. Si tratta dell’impegno a operare in maniera consapevole e motivata, aperti agli altri e al futuro, in modo che la speranza possa realizzarsi. Si tratta di agire non cessando di sperare. Si tratta di farlo anche quando, nell’epoca dell’indifferenza, sembra che per la speranza non ci sia spazio. Perché solo così possiamo essere fedeli a quanto la nostra umanità richiede. Solo così questa umanità la possiamo mettere in opera, pienamente.
*Professore di Filosofia morale Università di Pisa