mercoledì 14 maggio 2014
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Caro direttore,
scrivo in merito alla lettera di un lettore comparsa su “Avvenire” di mercoledì 7 maggio («Il commercialista mi dice: sepàrati». Il frutto della follia fiscale) e alla sua risposta, per sottoporle uno spunto di riflessione in più che credo sia importante. Condivido senza riserve la considerazione espressa riguardo al fatto che la nostra società è arrivata a un punto di pressione fiscale pesantissima, alla quale peraltro non corrispondono servizi efficienti al cittadino, e che in questo le famiglie non godono di molti vantaggi, né di forme di sostegno del reddito serie, e non posso che auspicare anch’io, con forza, un reale cambio di rotta a favore di chi ha davvero bisogno (famiglie numerose in primo luogo); quello però che a mio parere scaturisce dalla lettera citata, è qualcos’altro, è un segno deprimente di malcostume – molto italico – che va condannato in ogni caso. Ciò che il commercialista ha consigliato al lettore, giustamente scandalizzato, in realtà è un qualcosa che si sente fare da tante persone (regolarmente e felicemente sposate) per aggirare le normative fiscali. Io credo sia ragionevole che in caso di separazione (vera) la persona paghi singolarmente di meno rispetto a chi vive insieme al proprio coniuge con il quale mette le proprie risorse in comune, con i conseguenti vantaggi della vita insieme; quello che non è affatto ragionevole è che ci siano professionisti che suggeriscono di aggirare la legge fiscale (fingendo lo stato di separati o in altro modo) e che così, per colpa di tutti quelli che lo fanno, si finisca un po’ tutti per pagare troppo. Come osservò l’allora premier Monti, chi non paga le tasse, «ruba nelle tasche dei contribuenti onesti», per questo dobbiamo batterci sempre – soprattutto come cristiani – per il rispetto della legalità, sempre, anche quando fosse ingiusta. Naturalmente… senza perdere la speranza di cambiarla! Un caro saluto
Gina Lione, Roma
Beh, cara e gentile signora Lione, per prima cosa potremmo concludere che siamo almeno in tre a pensarla allo stesso modo sulle “infedeltà” fiscali: lei, il signor Emilio autore della lettera del 7 maggio scorso e il sottoscritto. In quest’Italia che non si scrolla di dosso l’immagine di “Paese dei furbi” è quantomeno un buon segno. Per fortuna, però, nonostante tutto, siamo infinitamente di più a pensarla così, e in modo particolare tra i lettori di “Avvenire”. Gente che anche quando protesta per la pesantezza o l’iniquità della “macchina delle tasse” non difende mai le pessime scorciatoie dell’evasione o dell’elusione fiscale. Gente che resiste alle tentazioni e alle dissimulazioni, anche quando non riesce proprio a capire perché certe agevolazioni vengano (giustamente) garantite quando l’unità familiare si rompe e non anche quando l’unità familiare (che, secondo Costituzione e buon senso, è bene da difendere o, almeno, da non ostacolare stupidamente) è messa alla prova oppure ha semplicemente bisogno di sacrosanto sostegno a livello di servizi e di tributi. Comunque, le nostre battaglie per un fisco equilibrato e amico della famiglia (e, in special modo, della famiglia con figli) le facciamo sempre e solo a viso aperto, da cittadini-contribuenti e da cristiani che si rendono conto di quanto le tasse possano e debbano essere anche uno strumento di giustizia, mezzi di sana redistribuzione della ricchezza e, dunque, arnesi buoni ed essenziali nel gran campo di lavoro della civile solidarietà. Lo diciamo e lo scriviamo senza timidezza, da molti anni, non solo per testimonianza, ma – proprio come lei conclude – con una fortissima speranza. Quella di convincere chi, in Parlamento e al Governo, ha sinora dimostrato non aver compreso l’importanza capitale della questione “fisco e famiglia”. Quella di riuscire a cambiare, con la forza dell’evidenza e delle giuste ragioni, ciò che non funziona nel nostro sistema fiscale. Ricambio con viva cordialità il suo saluto.
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