mercoledì 22 marzo 2017
Verso la Spagna e verso il nostro Paese si dirigeranno le ondate migratorie dall'Africa sub-sahariana sostenute dai più alti tassi demografici, dagli effetti delle guerre e dalla desertificazione
Migrazioni, perché l'Italia è la nuova Terra Promessa
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Le decine di migliaia di migranti arrivati in Europa tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 hanno contribuito a creare un’immagine indelebile di come le crisi umanitarie – in quei mesi alimentate dalla guerra civile in Siria – siano un potente motore per le migrazioni. Eppure, anche se dovessero cessare i conflitti, nei prossimi anni e nei prossimi decenni (quindi sul breve e medio periodo) le migrazioni non solo non finiranno affatto ma saranno potentemente spinte dai fortissimi differenziali della crescita demografica – e quindi dell’incremento della forza lavoro – tra il Nord e il Sud del Mediterraneo. Nell’ultimo quarto del XX secolo i principali attori di questo dramma globale rappresentato dalle migrazioni sono stati il Messico e gli Stati Uniti. Ma adesso l’emergenza si è spostata in Europa e in particolare in Spagna e Italia, i due Paesi più vicini al Nord Africa. È qui infatti che si dirigono le ondate migratorie dall’Africa sub-sahariana sostenute dai più alti tassi di incremento demografico del mondo, dagli effetti delle guerre, dalle strategie di vero e proprio genocidio attuate da organizzazioni come Boko Haram e dalla desertificazione che cresce a motivo dei duri effetti del cambiamento climatico. È insomma il Mediterraneo, il nuovo Rio Grande della Storia e l’Europa (non gli Stati Uniti) la nuova Terra Promessa per milioni di persone.

Sono queste le conclusioni di uno studio che Gordon Hanson e Craig McIntosh due professori dell’Università della California, San Diego, hanno pubblicato sull’ultimo numero 2016 del Journal of Economic Perspectives, dell’American Economic Association. Si tratta di una ricerca che aiuta a capire perché la risposta dei populismi al problema delle migrazioni non solo è immorale, ma è anche completamente inutile. Così come non è possibile ridurre a problema di ordine pubblico e di polizia un fenomeno del genere. Semmai, compito della politica italiana ed europea sarà quello di individuare risposte di carattere strutturale sia in Europa che in Africa. Il contesto europeo – spiegano Hanson e McIntosh – assomiglia moltissimo a quello degli Stati Uniti di trent’anni fa. Il tasso di fertilità europeo è in drastico declino già dagli anni Settanta, e il numero dei residenti in età lavorativa anche. La maggior parte dell’Europa avrà una popolazione addirittura negativa nelle classi di età tra gli 0 e i 14 anni, a partire dal 2040. In Nord Africa e Medio Oriente invece i giovani che cercano un futuro, un lavoro stabile e con salari migliori è enormemente cresciuto. Ma è soprattutto l’Africa subsahariana (una regione con ancora più bassi redditi del Medio Oriente), che ha la crescita della popolazione maggiore del mondo.

«I migranti scappano dai conflitti militari in Afghanistan, Iraq, Libia, e Siria, ma soprattutto attraverseranno sempre di più lo stretto di Gibilterra verso la Spagna e il braccio di mare che divide il Nord della Libia dal Sud Italia», scrivono i due studiosi. Come negli scorsi dieci anni gli algerini si sono stabiliti in Francia e i turchi in Germania, gli africani del SudSahara si stabiliranno sempre più in Italia. «Il Mediterraneo insomma – sembra costituire l’hotspot mondiale delle migrazioni fino alla metà di questo secolo». E l’Italia diventerà il quarto Paese al mondo per numero di immigrati, rimpiazzando la Francia nella sua attuale posizione nella classifica mondiale (dopo Stati Uniti e Spagna e Regno Unito) al compimento del 2020, cioè nei prossimi tre anni. Tre sono le destinazioni europee esposte – scrivono i due professori – ad una «enorme futura crescita dell’immigrazione: La Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia». Ma il ritmo di accrescimento dei flussi verso l’Italia sarà il maggiore di tutti proprio per la provenienza subsahariana dei nuovi migranti. La Germania invece declinerà come Paese ospite. Anche tra gli Stati Uniti e il Messico il numero degli immigrati crollerà dagli oltre 10 milioni nel 2010 a poco più di 2 milioni nel 2050, indipendentemente dalle politiche del presidente Donald Trump e dalla costruzione del suo Muro. Ma in gran parte in forza dell’allineamento demografico tra i due Paesi, con il crollo delle nascite in Messico.

Naturalmente i due professori americani precisano che dato il ruolo prominente degli choc economici, dei conflitti politici e dei disastri naturali nel muovere i flussi migratori, fare previsioni sicure è azzardato. Ciò non toglie che il loro studio mostri non sono trend realistici, ma reali. Cioè – come hanno scritto – esistono «le condizioni per l’Europa occidentale di dover far fronte a una forte pressione demografica dall’Africa per decenni». In base alle elaborazioni sui dati delle Nazioni Unite del Centro Studi della Bnl, ad esempio, la Nigeria nel 2040 arriverà ad eguagliare il numero dei residenti dell’intera Area euro. A ciò si aggiunge, la guerra e l’instabilità provocata nel Paese dagli estremisti islamici di Boko Haram. La Nigeria – come il Messico con gli Stati Uniti – non ha peraltro un confine orogeografico naturale che lo separa dalla Libia. Il confine è solo una distesa naturale aperta. E questo spingerà milioni (e non più decine di migliaia) di persone a migrare. Sì, milioni. Non deve sembrare un’esagerazione. Saranno milioni i migranti verso l’Europa nei prossimi anni, secondo Paul Collier, professore di Economia e Politiche pubbliche alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford, uno dei massimi esperti mondiali sul problema delle migrazioni e autore dello studio «Exodus», ritenuto da Robert D. Putnam «una lettura imprescindibile per chiunque voglia approfondire il tema» (pubblicato in Italia da Laterza). Exodus, appunto, un esodo che ha una connotazione biblica: la fuga da un continente, quello africano, divenuto, per milioni, invivibile. L’enorme differenziale economico fa il resto. Gli immigrati sono attratti da Paesi che per quanto considerati in crisi economica secondo i nostri standard, vivono in modo incomparabilmente più ricco rispetto a quelli di provenienza. Tanti poveri si muovono verso paesi con sempre meno nativi ricchi.

Leggendo questi dati si prende consapevolezza del fatto che nel dibattito pubblico (politico e giornalistico) si finisce per parlare in modo epidermico e reattivo rispetto ai singoli fatti di cronaca, come la morte dei migranti nel Canale di Sicilia o gli accordi di rimpatrio, ma senza la percezione reale di cosa stia veramente accadendo alle nostre porte. Le migrazioni di massa su scala mondiale tendono a configurarsi sempre meno come emergenze cicliche e sempre più come un fenomeno di lungo termine e di portata storica, in quanto effetto di un concorso di fattori strutturali e congiunturali: gli squilibri reddituali (e di opportunità) tra diverse regioni del mondo, i grandi cambiamenti climatici, le guerre e le carestie, la cronica instabilità politica di molte aree, l’aumento esponenziale della popolazione in numerosi Stati le cui economie non sono in grado di assorbire la nuova forza lavoro. Non si può prescindere da queste conoscenze e dalla coscienza dei fatti per decidere cosa fare. Altrimenti prevarranno solo razzismo, populismo e nuove tragedie.

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