lunedì 11 maggio 2009
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Caro Direttore, sono un assiduo lettore di «Avvenire» del quale ammiro lo stile, il livello intellettuale, la modernità grafica, la serietà e attendibilità delle informazioni. Desidero rivolgere a lei le più vive espressioni di apprezzamento e di solidarietà. Mi consenta una riflessione e un auspicio. Ho seguito con attenzione i servizi da Napoli in occasione del recente convegno sulle Chiese del Sud e ho – tra le altre notizie – sottolineato le parole del cardinale Bagnasco: «Non si tratta di creare un’altra Italia ma di costruire l’unico Paese con la partecipazione di ricchezze diverse convergenti e complementari». Sono parole nuove, certo rinnovatrici di antiche indimenticate tradizioni. Sono parole desuete nel comune lessico dell’attuale classe dirigente. Sono pensieri che ridestano antiche passioni civili. Sono parole e pensieri che hanno eco profonda nell’animo delle popolazioni meridionali. Oggi nel Meridione e in particolare in Sicilia l’uomo comune non crede nel millantato federalismo che è una locuzione estranea alla nostra storia, crede nel valore perenne e indistruttibile dell’unità nazionale sostenuta dalla nostra tradizione delle autonomie solidali. Nulla è più estraneo alla coscienza comune del frazionismo istituzionale, una prospettiva senza futuro. Non vedo remoto il tempo nel quale intelligenze vive e acute imporranno una revisione critica degli attuali idoli di baconiana memoria. Una proposta: che il nostro giornale prenda in mano con coraggio e con decisione la vecchia bandiera dell’unità nazionale per dare voce ad aspirazioni represse ma non spente e per ridestare gli ideali unitari della coscienza pubblica nei quali si raccolgono con consapevolezza cattolici e laici. Un senso nuovo di unità nazionale nella modernità, senza inammissibili nostalgie di paradigmi con un passato nel quale l’unità nazionale fu più apparente che reale.

Corrado Piccione, Siracusa

Il convegno «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud», tenutosi in febbraio a Napoli con la partecipazione dei vescovi delle cinque regioni ecclesiastiche del Meridione e di 350 delegati diocesani, è un stato un importante momento di riflessione ecclesiale e un «assist» prezioso per l’unità, oggi un po’ claudicante, del nostro Paese. La questione meridionale è sempre stata cara alla Chiesa italiana, che vent’anni or sono – quando il federalismo non era certo all’orizzonte – aveva lanciato, in uno storico documento episcopale, un appello la cui validità e attualità è stata confermata dai fatti: «Il Paese non crescerà se non insieme». Questa preoccupazione per la concordia nazionale – di cui la comune fede cristiana è un ingrediente costitutivo – è sempre stata la «linea» del nostro episcopato, culturalmente antitetica a qualsivoglia egoismo particolaristico eppure attenta alle risorse locali, ed è stata con forza rilanciata nel convegno di Napoli da lei citato. Un appello all’impegno comune quale indispensabile reazione contro la crisi e contro una sfiducia che sembra, purtroppo, aver raggiunto il livello di guardia. Quest’invito è stato accompagnato da una lucida lettura della situazione del Mezzogiorno, proposta senza perifrasi, ma anzi con quella franchezza che deriva dall’amore autentico per le sorti d’un popolo. Le genti del Sud devono guardarsi da una doppia insidia: quella di abbandonarsi al fatalismo o al disfattismo, e quella di essere indulgenti nei confronti dell’illegalità, che si è impadronita di troppa parte della società e dell’economia locali, porgendo il destro alle tesi separatiste, alle idee di chi vede nel Meridione un’irrecuperabile sacca d’anarchia, una zavorra, una palla al piede per il benessere del resto d’Italia. Di tutto ciò si è fatto portavoce – con chiarezza – il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, la cui argomentazione è bene rileggere per intero: «...Non si tratta di creare un’altra Italia, ma di costruire l’unico Paese con la partecipazione di ricchezze diverse, convergenti e complementari, così da sentire la gioia e la sofferenza di una parte come la gioia e la sofferenza di tutti». Nel Meridione – ha ricordato il porporato – c’è «...un popolo dal cuore buono che conosce la generosità, l’altruismo, che ha il senso dell’amicizia e delle radici e spesso vive una religiosità diffusa, un cristianesimo praticato; gente che ama la sua terra anche se non di rado è costretta a lasciarla per cercare altrove occupazione e futuro; gente che purtroppo è segnata anche da ferite antiche e nuove». Da questa positiva consapevolezza dobbiamo e possiamo, tutti noi italiani, ripartire.

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