venerdì 23 ottobre 2015
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«Non siamo per nulla preoccupati del destino di Bashar al-Assad».Quando Vladimir Putin pronunciò questa frase tre anni fa furono in pochi a prestargli fede. Oggi però quella sentenza si dimostra più che mai profetica. Basti considerare la freddezza con cui il presidente siriano – che da quattro anni non metteva piede fuori dal suo Paese – è stato recentemente ricevuto a Mosca: una convocazione più che un invito (e con lui c’era quasi tutta la nomenklatura del regime di Damasco), perché il satrapo siriano non era affatto un ospite di riguardo, ma anzi un riottoso comprimario che sta intralciando i disegni del Cremlino. La sorte di Assad infatti a Putin interessa poco o nulla: le priorità del presidente russo sono altre e su tutte ci sono il mantenimento della presenza militare di Mosca nel Mediterraneo e la preoccupazione di evitare uno smembramento della Siria come è accaduto in Libia o nello Yemen. Ma a far sì che il rovente teatro che si stende fra la Siria, l’Iraq e i confini turchi si stabilizzi occorre che Assad esca abbastanza presto di scena. Questo gli ha chiesto (o ordinato?) Putin, e questo rimane il problema principale (anche in termini di incolumità personale) per il figlio di quel "Leone di Damasco", Hafez al-Assad, che inaugurò negli anni Settanta la lunga e duratura alleanza con il Cremlino e accolse la visita di Nixon nel 1974 con la battagliera consapevolezza di essere l’avamposto arabo dell’Urss.Ma i pezzi della scacchiera non sono più quelli di un tempo e Damasco – sebbene continui a godere del sostegno di Mosca – non è che una delle tante carte che Putin sta giocando in Medio Oriente. Perché nulla è veramente durevole per Putin, non le alleanze né i partner occasionali, come gli Hezbollah libanesi dello sceicco Nasrallah o le milizie iraniane che combattono sul territorio siriano. E nemmeno quella sorta di centrale operativa allestita dai russi nel cuore di Baghdad insieme a iraniani, siriani e iracheni, una specie di "Kgb in trasferta" per monitorare il territorio in cui si affrontano Assad e i suoi alleati sciiti, le milizie ribelli e i jihadisti del Califfato. Quello che conta per il presidente russo – spregiudicato giocatore di poker e abilissimo a sfruttare le debolezze e le divisioni altrui (soprattutto quelle occidentali) – è affermarsi come nuova imprescindibile superpotenza anche in Medio Oriente, vanificando quel tardivo sogno neo-ottomano che Erdogan aveva accarezzato negli ultimi anni tentando di imporsi come arbitro assoluto degli equilibri geopolitici di un’area che va dall’Iraq al Sudan, dal Libano alla Libia: ora in Medio Oriente sono arrivati i russi, con le loro navi, le loro basi mobili, i loro cacciabombardieri. Difficile che decidano di andarsene, dal momento che grazie a Putin hanno saldamente in mano l’agenda politico-militare della regione. Ma se Erdogan sognava per la Turchia una rinascita ottomana (e tuttora la sogna, visto il pugno di ferro con cui persegue i suoi scopi, dal bavaglio alla stampa e alle tv non in linea con il governo alla vigilia delle elezioni alla spietata offensiva contro l’ala militare del partito curdo) anche Putin con certi accenni neozaristi è riuscito a risvegliare in Russia un diffuso sentimento d’orgoglio nazionale che è improprio definire nostalgia dell’impero sovietico, ma un po’ gli somiglia: ne dà conferma lo strabordante consenso che ha raggiunto in questi giorni, con un tasso di popolarità dell’89,9%, rinvigorito dalla spettacolare (e spettacolarizzata) campagna militare in Siria. Dove peraltro si contano i primi morti: tre, finora, anche se ufficialmente per Mosca nessun russo è caduto sul campo. Forte di un simile "mandato" popolare il presidente Putin può permettersi il lusso di partecipare al forum di Sochi sul Mar Nero (il cui titolo è – non si sa se in omaggio a Tolstoj o alla predisposizione all’azzardo del nuovo zar – Vojna i mir, Guerra e pace) schiaffeggiando la Nato, l’Occidente, gli Stati Uniti e i loro alleati arabi.«La questione nucleare iraniana – dice Putin – è stata risolta, l’Iran non è mai stata una minaccia. Ma alcuni Paesi fanno il doppio gioco: lottano contro il terrorismo, e allo stesso tempo aggiungono pezzi sulla scacchiera perseguendo propri interessi». Messaggio diretto al presidente Obama, per poi – da bravo giocatore d’azzardo – subito rilanciare: è tempo di una road map per la Siria. A guida russa, ovviamente.
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