venerdì 26 giugno 2009
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Forse Teheran non sarà l’«inferno» annunciato dai pochi messaggi che riescono a spezzare il silenzio mediatico imposto dal regime iraniano, ma è certo che ne è stata e continua ad esserne l’anticamera, allarmante intreccio di fondate quanto sinora inascoltate richieste di verità (sulle elezioni di due settimane fa, ma non soltanto su quelle) e di false promesse di accertamento, di invocazioni al rispetto dei diritti umani e di continua violazione degli stessi, sino allo spargimento di sangue innocente. La varietà socio-politica del Paese e la turbolenza della sua storia recente (il suo inizio risale non al 1979 della rivoluzione khomeinista, ma al 1953 della caduta di Mossadeq voluta dai potentati petroliferi occidentali), complicate dal fatto che le tensioni attuali sono determinate più da una lotta di potere ai vertici che da una capillare protesta popolare, nonché l’assenza di informazioni rendono impossibili analisi esaurienti e previsioni attendibili. Per le quali bisognerà attendere almeno oggi, ossia il venerdì della preghiera già utilizzato dalla Guida Suprema Khamenei sette giorni fa per confermare la vittoria del presidente Ahmadinejad e per offrire ai contestatori un’unica concessione: un controllo formale delle schede, persino con l’ammissione dei brogli, ma non al punto di convocare nuove elezioni. Dipenderà dunque molto dalla presa di posizione sua e dello stesso Ahmadinejad se la repressione infierirà ancor più crudelmente o se le manifestazioni di piazza, più o meno gradualmente, verranno assorbite. «Assorbite» non vuol dire però dimenticate, soprattutto dalla parte più attiva di un Paese dove il peso numerico dei giovani è straordinario, anche se ancora non ha espresso leader capaci di interpretarne le istanze, e di guidarli sulla strada che potrebbe portarli alla democrazia o, comunque, a un’aria socio-culturale più respirabile. Nel frattempo crediamo prematuro affermare che il regime ha le ore contate, e che il destino della Repubblica islamica è ormai segnato. Non foss’altro perché l’opposizione attualmente in grado di farsi sentire, e anch’essa tra grandi difficoltà, fa capo a personaggi come Mussavi, Khatami, Rafsanjani, Montazeri, che per quanto considerati "riformisti" sono creature della Rivoluzione, che li ha portati ad alti incarichi politici e religiosi. Questo non vuol dire che la situazione sia cristallizzata, tutt’altro. Per esempio, la collera per i brogli elettorali e lo spargimento di sangue che ne è seguito hanno determinato almeno un importante cambiamento: la Guida Suprema Khamenei, schierandosi con Ahmadinejad, ha abdicato al suo ruolo di arbitro super partes. E questo non passerà inosservato, soprattutto da parte dei religiosi che da tempo gli rimproverano di non aver mai avuto le credenziali teologiche necessarie per succedere all’Ayatollah Khomeini. Esaminata, per sommi capi, la situazione interna, si può guardare, con non minore preoccupazione, alla posizione del regime sulla scena internazionale. Mentre la decisione di dotarsi di armi nucleari appare irremovibile, sono le aperture possibili con tutti i Paesi vicini, e non soltanto con Israele, ad apparire congelate. L’atteggiamento del regime verso l’Occidente – Stati Uniti e Gran Bretagna in prima fila, ma l’Unione europea non è vista con occhio migliore – rimane sprezzante quando non apertamente ostile, e ci vorranno altro che le prudenti offerte di dialogo del presidente americano Obama per sbloccare la situazione.Che fare, nel frattempo? Continuare instancabilmente, diremmo implacabilmente, a tutti i livelli e in tutte le sedi possibili, a denunciare la repressione e ogni altra ingiustizia commessa in Iran, scartando anche quelle cautele diplomatiche che, al momento, sono inutili. Schierarsi in difesa degli oppressi, cercare di impedire anche alzando la voce nuovi bagni di sangue, è un dovere universale.
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