L’industria che evolve
giovedì 22 ottobre 2020

Un’indagine condotta dal Senseable City Lab del MIT di Boston ha calcolato che nelle grandi città americane, le automobili usate tutti i giorni per andare al lavoro, fare la spesa e spostarsi per altre ragioni, in media sono utilizzate in movimento per meno di due ore al giorno. Lo stesso accade in quasi tutte le metropoli nel mondo. Questo è il grande paradosso dell’automobile moderna: indispensabile per quasi tutti, ma destinata a trascorrere oltre il 95% del tempo ferma e parcheggiata, spesso occupando prezioso spazio pubblico. Ciò non toglie che, in Italia più che altrove, l’automobile ha rappresentato da sempre non soltanto un mezzo di locomozione e un prodotto della tecnologia capace di rivoluzionare i trasporti terrestri, ma è stata attrice della trasfor-mazione sociale. E simbolo, allo stesso tempo, di libertà, indipendenza, benessere e progresso.

Concetti questi che non potranno essere scalfiti nemmeno dall’uso sbagliato o dall’incomprensione totale del ruolo, del limite e della qualità intrinseca del prodotto motorizzato. La questione è duplice: di linguaggio, ancor prima che di sostanza. Perché ormai, ad esempio, si usano termini legati al mondo dell’auto in maniera impropria, a iniziare dall’acronimo “Suv” che nel lessico e nell’iconografia dominanti è sempre e solo sinonimo di mezzo ingombrante, arrogante e inquinante. Cosa che non è più, visto che ormai indica un genere trasversale, normalmente più sicuro di altri, e spesso anche di dimensioni contenute. Come in altri campi della società dunque, il problema non sono le macchine, ma le persone: l’uso che si fa degli oggetti, segna la differenza.

E l’impegno che si utilizza per renderli compatibili con la nostra vita è diventata la linea di demarcazione decisiva per stabilirne l’ammissibilità. In questa rincorsa alla sostenibilità, l’industria dell’auto può vantare investimenti e sforzi indubbiamente superiori a qualunque altro settore: sa di essere (e soprattutto di essere stata) colpevole di importanti percentuali inquinanti e di vergognosi scandali per nasconderli, ma anche per questo si è ricostruita un’identità spendendo cifre mostruose per trasformare le vetture più moderne in mezzi ecologicamente compatibili e sempre più avviati attraverso l’elettrificazione all’abbandono dei carburanti fossili. In ambito urbano però l’elettrico, perlomeno ora, pur in crescita è un’opzione di nicchia, sostenuta dai soldi della collettività tramite gli incentivi finanziati con le tasse anche da chi non può permettersi le costose vetture a zero emissioni (o almeno, così definite).

Mentre l’atteggiamento di molte amministrazioni comunali che spingono la transizione penalizzando pesantemente le vetture a carburante tradizionale sta creando una marcata situazione di ingiustizia sociale, negando il diritto e la possibilità di muoversi a una grande fascia di persone che riescono a permettersi a fatica solo l’auto che posseggono. E pregiudicando il concetto stesso di motorizzazione di massa per il quale si è progettato e persino lottato per decenni. Negare questo, significa essere fuori dal mondo che cambia. Come lo è fingere di non sapere che l’automobile oggi per la maggioranza delle persone è uno strumento più necessario che voluttuoso, e che solo chi vive nel pieno centro delle città può permettersi visioni di mobilità “dolce” e fiabesca, negata per ragioni di distanza e sostanza a tutti gli altri.

Mentre in Francia si sta discutendo del varo di una tassa da applicare sull’acquisto dei veicoli che eccedano i 1.800 kg di peso, penalizzando così di fatto anche le famiglie numerose che necessitano di mezzi a 7 posti, sarebbe ingiusto non accorgersi che nelle nostre città, pur popolate anche da vetture esageratamente “fuori taglia” e del tutto fuori luogo nel contesto urbano, le auto di piccole e medie dimensioni rappresentano una maggioranza sempre più estesa. E che nel breve termine, o perlomeno finché continuerà l’attuale convivenza forzata con la pandemia, il distanziamento sociale garantito dall’uso dell’automobile rispetto alle altre soluzioni, rimarrà la forma di spostamento più inevitabile e sicura.

Riattivare l’Area B a Milano, cioè la Ztl che vieta l’ingresso praticamente in tutta la città ai veicoli diesel fino a Euro 4, ad esempio, è stato un provvedimento poco avveduto che sta aumentando l’affollamento dei mezzi pubblici in un momento in cui esistono altre e più gravi priorità sanitarie. Detto questo, l’aria sporca, gli ingorghi e le vetture extra–large non si conciliano con il mondo che tutti vorremmo. Per questo, pur ricordando sempre che qualunque movimento crea inquinamento, è indispensabile una politica mirata a far crescere un adeguato trasporto su rotaia per chi in città ha l’obbligo e il diritto di arrivare.

E che crei nelle aree metropolitane le condizioni per avere sempre più piccoli autobus elettrici con passaggi frequenti e puntuali, sistemi efficienti di car sharing, piste ciclabili vere e sicure, proporzionate alla misura delle biciclette e non assurdamente e inutilmente invasive, diverse cioè dalle strisce dipinte sull’asfalto che oggi lavano la coscienza ecologica di molti Comuni. Solo così la parabola dell’automobile, almeno nelle metropoli, potrà ritenersi finalmente e utilmente conclusa.

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