Ma l'imparzialità del giudice non è una giacca di stagione
venerdì 8 aprile 2022

Già più di dieci anni fa, membro laico del Consiglio superiore della magistratura, mi espressi per l’inopportunità di un rientro del magistrato alla giurisdizione dopo una esperienza politica. Lo ricordo, non certo per un patetico amarcord, ma perché vorrei evitare di venire 'arruolato', per questa mia convinzione, tra le truppe del revanscismo politico contro una magistratura severamente debilitata nella stima della collettività. Se per gravi responsabilità delle articolazioni di vertice della magistratura, per un insostenibile carico giudiziario, per la farraginosità di alcuni snodi processuali, per le amplificazioni del megafono mediatico la giustizia non gode più della fiducia della collettività, il problema urgente e ineludibile è restituirle credibilità, non penalizzarla.

Problema urgente e ineludibile perché quando il popolo non ha fiducia nella giustizia amministrata in suo nome ne resta compromessa la qualità della democrazia, quando non la democrazia tout court. Non ci sono ovviamente rimedi risolutivi. Soltanto plurimi e ben ponderati interventi possono concorrere a restituire alla giustizia, anche simbolicamente, la perduta reputazione sociale. Impedire a un magistrato che ha scelto di impegnarsi in politica la possibilità di tornare a giudicare, può a pieno titolo annoverarsi tra questi. L’aver svolto una funzione politica – intesa non soltanto come carica elettiva (parlamentare, sindaco, presidente di regione), ma in senso lato, come titolarità del potere di assumere provvedimenti per il governo della società – potrebbe infatti condizionarne l’operato.

O anche soltanto far dubitare della sua imparzialità. L’attuale disciplina normativa non lo vieta e arriva persino a consentire, con intuibili disorientamenti nella percezione della collettività, al magistrato che eserciti funzioni giudiziarie in una città, di recarsi in un’altra della circoscrizione viciniore per svolgere compiti di natura politica (sindaco, assessore, consigliere), per poi tornare a esercitare le prime e via di seguito. Vi è chiaramente sottesa la bizzarra e irresponsabile idea che l’imparzialità si possa indossare o dismettere insieme alla toga. Beninteso, ho diretta esperienza di magistrati che, dopo una parentesi politica, sono tornati ad amministrare giustizia in modo ineccepibile, ma non è corretto affrontare il problema adducendo casi singoli. Le figure professionali che ho in mente non si consentirebbero di svolgere funzioni di giudice nel medesimo procedimento in cui abbiano svolto quelle di pubblico ministero o in cui eserciti altre funzioni il proprio coniuge.

Non per questo, però, è meno sacrosanta la norma che contempla, in tali casi, una non superabile incompatibilità a giudicare. Le regole vanno poste in base alla gravità del rischio indotto dalla loro assenza. Ed ancora. Contro la perdita di affidabilità del magistrato 'restituito' dalla po-litica, si obbietta suggestivamente: «Se ho bisogno di un chirurgo o di un architetto non mi interessano quali siano le sue idee politiche, bensì quali siano le sue capacità professionali». Argomento di indubbio effetto. Ma si tratta di giacca abbottonata non in corrispondenza delle asole. Un conto, infatti, è risolvere un problema tecnico, un conto è giudicare la condotta di un uomo e disporre della sua libertà.

A nessuno verrebbe in mente di 'ricusare' il chirurgo perché è suo stretto parente o perché ha già manifestato un parere clinico in ordine alla migliore tecnica operatoria nel caso di specie. Ebbene, queste medesime circostanze, che in genere rassicurano il paziente, bastano all’imputato per ricusare il proprio giudice, estromettendolo dal processo. Predisporre quindi un robusto guard rail là dove si sono registrati vistosi sbandamenti, anche normativi, dalle carreggiate dello Stato di diritto, può contribuire a preservare la giurisdizione da insidiose contaminazioni che ne appannano l’alta funzione. In tal modo, si assolverebbe anche un prezioso compito di 'pedagogia costituzionale', tracciando nitide linee di confine tra il governare e il giudicare. Distinguo che induce ad un’altra considerazione, in genere ignorata nel dibattito in argomento.

Il magistrato che ha svolto una funzione politica non pone, infatti, esclusivamente un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità, come di solito si sottolinea. Facciamo un esempio estremo: se un magistrato avesse militato in una formazione politica civica, che mira semplicemente ad un qualunquistico 'onesto governare', non vi sarebbe alcun problema di imparzialità in senso sostanziale. Se poi quel magistrato tornasse ad esercitare funzioni giurisdizionali in una città lontana in cui si ignora persino della sua precedente esperienza politica, non vi sarebbe neppure un problema di immagine. Eppure, una seria criticità sussisterebbe ugualmente, perché politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti, e il primo rischia di contaminare il secondo, adulterandolo. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta verso determinati obbiettivi e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire a un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato e opera secondo lo schema «se è accaduto questo... allora ne deve conseguire... ».

Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge (art.101 comma 2 Cost.), non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della propria decisione. Il politico, invece, deve rispondere delle conseguenze delle proprie scelte. Ebbene, il magistrato che 'torna' ad esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa rischia di averne assorbito metodi e finalità: tendenzialmente avrà un approccio più attento al risultato e alle conseguenze che alla legalità del procedere e del decidere. Un’inclinazione pericolosa: quando la magistratura opera scelte di natura lato sensu politica, al di là della condivisibilità del loro contenuto, prima o poi sarà chiamata a risponderne politicamente.

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