giovedì 18 giugno 2020
L’uso distorto della religione per fini di consenso personale e per rafforzare la devozione allo Stato
Il nazionalismo religioso e culturale in un mondo senza identità omogenee conduce all’eliminazione delle diversità. L’esempio resta il Buon samaritano

Il nazionalismo religioso e culturale in un mondo senza identità omogenee conduce all’eliminazione delle diversità. L’esempio resta il Buon samaritano

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In questi giorni sembra tornare in auge, in alcuni Paesi, una forma di nazionalismo religioso-culturale. La religione viene usata sia per fini di consenso personale sia per lanciare un messaggio politico che si identifica con la fedeltà e la devozione delle persone a uno Stato. Si dà per scontato che in esso le persone abbiano in comune l’identità, l’origine, la storia, e che esse sostengano un’omogeneità ideologica, culturale e religiosa, rinsaldata dai confini geopolitici. In realtà, nell’odierno mondo globalizzato non c’è alcuna tra le entità geografiche che possono definirsi 'nazione' che abbia al suo interno una sola identità omogenea sotto il profilo linguistico o religioso, o da qualsiasi altro punto di vista. Quindi un nazionalismo radicale è possibile soltanto se esso elimina questa diversità. Ne consegue che è più che mai necessario operare una liberante decostruzione del nazionalismo. Sia chiaro: il nazionalismo non va mai confuso con il patriottismo. Infatti, mentre il «patriota è orgoglioso del suo Paese per quello che fa, il nazionalista si vanta del suo Paese, qualsiasi cosa faccia; il primo contribuisce a creare senso di responsabilità, mentre il secondo conduce a una cieca arroganza che porta alla guerra».


Il patriottismo è positivo perché caratterizza chi è orgoglioso del proprio Paese per quello che fa, non qualsiasi cosa faccia
No all’arroganza che porta alla guerra Il presente articolo è un estratto di un intervento più ampio pubblicato sul numero 4080 di «La Civiltà Cattolica» (20 giugno - 4 luglio 2020)

La rilevanza di una risposta teologica al nazionalismo. Quali sono i contorni della mitizzazione del nazionalismo? Le narrazioni nazionalistiche efficaci di solito mitizzano la storia e storicizzano le mitologie con grande successo. Consideriamo, a titolo di esempio, il seguente passo di Johann Dräseke, scritto a Brema nel 1813: «Tutti i templi, tutte le scuole, tutti i municipi, tutti i luoghi di lavoro, tutte le case e tutte le famiglie devono diventare arsenali in difesa del nostro popolo contro tutto ciò che è straniero e malvagio. Il cielo e la terra devono unirsi in Germania. La Chiesa deve diventare uno Stato per accrescere il suo potere, e lo Stato deve diventare una Chiesa fino a essere il Regno di Dio. Soltanto quando saremo diventati devoti in questo senso, e ci uniremo tutti in questa devozione, e diventeremo forti in tale unità, non dovremo mai più sopportare un giogo». Anche un sentimento nazionale per certi versi laico come quello degli Stati Uniti si è ammantato di aspetti 'religiosi', con una sorta di divinizzazione nei riguardi di alcuni dei padri fondatori e una narrazione incentrata sul ruolo e favore speciali accordati da Dio a quel popolo. Nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale l’esaltazione dell’American way of life ha comportato l’apoteosi della vita nazionale, l’equiparazione dei valori nazionali a una religione, la divinizzazione degli eroi nazionali e la trasformazione della storia nazionale in Heilsgeschichte ('Storia della salvezza'). Come già è stato scritto da La Civiltà Cat- tolica, il pensiero di alcune collettività sociali religiose fondamentaliste «considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito». Anzi, «spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del 'Dio degli eserciti' di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto». Una risposta al nazionalismo è una risposta autenticamente religiosa, ovvero una risposta che, attraverso la teologia, sappia cogliere l’essenza del discorso religioso stesso, decostruendo narrazioni e pratiche che si rivelano distruttive anziché costruttive, come quelle del nazionalismo, appunto. La teologia non è solamente importante, ma essenziale per decostruire tante narrazioni e tante pratiche distruttive che disumanizzano gli individui e le collettività, come la retorica e l’esercizio del nazionalismo religioso- culturale. Papa Francesco così si è espresso in merito alla rilevanza religiosa di fronte ai pericoli di oggi: «Le religioni hanno un compito educativo: aiutare a tirare fuori dall’uomo il meglio di sé», mentre «emergono sempre più le reazioni rigide e fondamentaliste di chi, con la violenza della parola e dei gesti, vuole imporre atteggiamenti estremi e radicalizzati, i più distanti dal Dio vivente».

Il volere salvifico universale di Dio I testi dell’Antico Testamento sono abbastanza ambigui nei confronti del nazionalismo. Da una parte, sostengono l’esclusivismo religioso-culturale di Israele e il suo correlato sentimento di essere favorito da Dio; dall’altra, raffigurano la visione dell’amore universale di Dio che si prende cura di tutti i popoli. Ossia, da una parte abbiamo la cosiddetta «traiettoria di consolidamento regale », tesa a favorire, difendere e giustificare il ruolo della classe dirigente giudaica e la sua teologia. Dall’altra, è pregnante la cosiddetta «traiettoria di liberazione profetica », caratterizzata dall’autentica critica nei confronti dello stile di vita idolatra dei governanti, con la previsione del giudizio, del castigo e di una successiva ricostruzione di Giuda nel segno di una provvidenza universale di Dio. I profeti infatti relativizzano la vicinanza esclusiva di Israele a Dio: «Non siete voi per me come gli Etiopi, figli d’Israele? Oracolo del Signore. Non sono io che ho fatto uscire Israele dal paese d’Egitto, i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir?» (Am 9,7), deprecando una visione prettamente esclusivista, con la ripetuta evocazione della 'mescolanza di razze' che caratterizza la storia ebraica , del re pagano Ciro che è 'l’eletto del Signore' (Is 45,1), del re Nabucodonosor che è 'il servo del Signore' (Ger 27,6), e di Dio, che non è Dio del suo popolo «solo da vicino, […] ma anche da lontano» (Ger 23,23). Leggere questi testi all’interno di un quadro complessivo della giustizia e dell’amore di Dio come vengono rivelati dall’evento Cristo comporta la denuncia inequivocabile di ogni oppressione e sfruttamento di qualsiasi essere umano in qualsiasi circostanza. Qualsiasi visione che non si ponga a questa altezza va certamente contro il volere salvifico universale di Dio.

Il 'prossimo' invece del nazionalismo Risulta al riguardo illuminante prendere in considerazione la parabola del Buon samaritano (cfr Lc 10,25-37). Il suo impatto risiede nell’idealizzazione del samaritano invece che di un (buon) ebreo. Pur criticando il sacerdote e il levita per la loro religiosità non liberatoria, la parabola avrebbe potuto esaltare un ebreo qualsiasi, un povero. Perché invece esalta un samaritano? La nuova categoria, quella del 'prossimo', è un antidoto all’autogiustificazione nazionalista. Il prossimo non coincide con il correligionario e il connazionale. La parabola del Buon samaritano sfata il mito di un nazionalismo che si proponga di costruire una nazione sulle macerie di alcuni dei suoi cittadini e dei suoi vicini. L’impegno a farsi prossimo di chiunque, come viene esaltato nella parabola, esige passi concreti. Davanti a un prossimo vero e vivo, il nazionalismo e il patriottismo ipocrita finiscono nel dimenticatoio ed emerge la verità concreta di ogni essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio. L’evento pasquale segnerà poi definitivamente il passaggio a un nuovo Popolo di Dio, i cui membri sono riconciliati nel sangue di Cristo indipendentemente dalle proprie appartenenze e culture. Come dice san Paolo, «la nostra cittadinanza […] è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo » (Fil 3,20). Questa 'cittadinanza celeste' trascende qualsiasi cittadinanza faziosa e idolatra. Inoltre, l’amore del prossimo è davvero l’amore dell’'altro', in contrasto con «l’amore di se stesso o del simile» sostenuto dal nazionalismo, perché quest’ultimo è «amore per me» , un amor proprio narcisistico, che il cristianesimo non può approvare. Giustamente, quindi, «la parabola del Buon samaritano stabilisce la priorità non del mio popolo o della mia nazione, ma del bisognoso, chiunque e dovunque sia. Per contro, la faziosità del nazionalista favorisce arbitrariamente coloro che davanti a Dio non hanno privilegi o condizioni speciali. Gesù insegna un amore radicale che riconosce il valore uguale di ogni persona creata a immagine di Dio, e proibisce un trattamento speciale per me e per i miei».

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