L'Unione ora vada avanti e lasci indietro chi frena
venerdì 29 maggio 2020

Caro direttore, è il caso di insistere sul valore istituzionale della proposta Merkel–Macron sul Recovery Fund, ora ripresa e sviluppata dalla Commissione Europea. Se accettata, nonostante la strenua opposizione di quattro Paesi dell’Unione, essa segnerebbe infatti una inversione di tendenza rispetto al declino delle istituzioni europee che sembrava inarrestabile. La crisi economica enormemente aggravata dalla pandemia in atto ha messo definitivamente in evidenza un difetto d’origine dell’impianto istituzionale europeo: al di là delle grandi idealità dei fondatori, il modello istituzionale dell’Unione Europea resta centrato sull’idea originaria di evitare conflitti fra gli Stati membri.

Corrisponde a questo obiettivo la creazione di un mercato comune che consente ai singoli Paesi di convivere e anche di espandersi senza ricorrere all’uso delle armi (è per altro evidente che se ne avvantaggino soprattutto i Paesi più forti e la prassi lo ha ampiamente dimostrato). Il modello è stato rafforzato dalla creazione dell’euro: una moneta unica pur con tanti bilanci diversi. Un tale sistema, però, non funziona e l’Europa, chiusa in se stessa, non è in grado di svolgere un ruolo verso il resto del mondo, a partire dalla risoluzione dei conflitti che si registrano alle sue porte. O meglio, il sistema attuale funziona solo se non succede nulla di particolare. Lo si è visto nelle reazioni ai flussi migratori e la cosa è ancora più evidente con la crisi economica. Il motivo è semplice: come si fa a gestire una moneta unica con tanti bilanci diversi?

L’Europa non può fare manovre finanziarie e rende difficili quelle dei singoli Stati. Il “rigore”, poi, non deriva da una scelta ideologica, ma è una condizione indispensabile per far funzionare il sistema. Ciò comporta però che le popolazioni degli Stati non trovino nell’Europa la risposta ai loro bisogni e anzi tendano spesso a vederla solo come un ostacolo. Insomma: se non si fa un deciso passo avanti sul piano istituzionale nel senso di una Europa federale, il sistema della Ue corre il rischio di crollare. Sarebbe un disastro. Sarebbe assai più difficile mantenere la pace nel mondo con due sole superpotenze e ogni Paese più piccolo vedrebbe la propria popolazione dividersi fra i favorevoli all’una o all’altra. Lo abbiamo sperimentato per secoli. Si capiscono allora gli accorati appelli che il Papa sta rivolgendo ai governanti perché trovino soluzioni unitarie. La proposta del Recovery Fund, al di là della sua utilità per risolvere problemi immediati, può avere una importanza storica. Il meccanismo per cui ai bisogni interni di un Paese risponde l’Europa senza chiedere che il contributo da versare corrisponda alle somme ricevute e senza l’obbligo di restituzione totale implica di per sé una trasformazione istituzionale dell’Unione, che corregge il difetto iniziale: l’Europa si fa carico direttamente dei bisogni delle popolazioni.

Se ne era avuto un inizio, sul versante della Banca centrale europea, con le politiche monetarie avviate da Mario Draghi. Ora, appunto, verrebbe reso esplicito sul piano istituzionale. Si tratta di un primo passo, che per consolidarsi ha bisogno anzitutto di trasformarsi da temporaneo in stabile (come hanno avvertito osservatori e studiosi), e se ne devono poi trarre le conseguenti misure di riassetto delle Istituzioni comuni che portino a un riequilibrio fra poteri e investitura democratica. Le opposizioni di alcuni Paesi devono essere superate o bypassate tenendoli fuori da questa decisione. Non sarebbe una novità perché importanti istituti, come il Mes (il cosiddetto Fondo salva Stati) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf), già non comprendono tutti i Paesi dell’Unione. Del resto è inutile avere grandi progetti se il treno viaggia alla velocità dell’ultimo vagone.

Giurista, professore emerito nell’Università di Roma Tre

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