L'orrore tedesco per i tracolli del 900 e la fraternità che non finisce al Reno
sabato 18 aprile 2020

Caro direttore, l’economia non è una scienza che possa prescindere dai criteri di valore, ancorché nel 1932 Lionel Robbins convinse del contrario tutti gli economisti per almeno settant’anni. L’articolo di Luigino Bruni ('Il gran peso delle parole', 31 marzo) e il successivo dialogo tra il teologo Lothar Vogel e lo stesso economista ha avuto il pregio di ricordare che le decisioni economiche si fondano anzitutto nel retroterra culturale e perfino teologico, che insomma l’economia è (anche) una scienza morale. Bruni si è chiesto perché, anche in tempi eccezionali, la Germania si dimostri riluttante a fare debito per alimentare la spesa pubblica. La teoria economica ha dimostrato che nei momenti di calo della domanda è necessario l’intervento statale per mobilitare i risparmi privati.

Perché dunque i tedeschi (i politici e la gente comune, prima che i loro economisti) sono così restii ad emettere debito pubblico e mantengono in modo intransigente la politica dello schwarze Null, espressione colloquiale per definire il pareggio di bilancio? L’equivalenza linguistica tra Schuld intesa come colpa e Schuld intesa come debito (in realtà i madrelingua per il denaro usano solo la forma plurale, Schulden, distinguendo bene i campi semantici) non basta da sola a costituire la matrice di tale atteggiamento. Schuldderiva da sollen (dovere) e significa anzitutto 'responsabilità, avere un dovere verso qualcuno' (tanto quanto l’italiano debito, che deriva dal latino debère, dovere). Schuld diventa 'colpa' (significato derivato) solo quando il dovere viene trasgredito. La colpa è dunque, in Germania come ovunque, non aver mantenuto la promessa sancita da un sollen, il dovere assunto con un impegno morale. Ciò indipendentemente dalla confessione religiosa, tant’è vero i maggiori custodi dell’ortodossia economica sono i ricchi Länder cattolici della Baviera e della valle del Reno. La repulsione al debito è in Germania trasversale pure alla colorazione politica: l’attuale ministro delle finanze è il socialdemocratico Olaf Scholz, allergico agli Eurobond tanto quanto lo era il suo predecessore democristiano Wolfang Schäuble. Se vogliamo mantenere una spiegazione culturale al comportamento economico, dovremmo forse rivolgerci alla recente storia tedesca e a quella scuola di pensiero socioeconomico che va sotto il nome di Economia Sociale di Mercato ( soziale Marktwirtschaft) i cui capisaldi teorici sono la libertà individuale, incastonata dentro l’ordine comunitario, e la stabilità monetaria. Il suo background consiste nell’esperienza che fare debito significa perdere libertà e indipendenza. Non a caso il Museo di Storia Tedesca di Berlino ha pensato nel 2018 di dedicare al rapporto tra tedeschi e denaro una mostra intitolata 'Risparmiare: storia di una virtù tedesca' ( Sparen - Geschichte einer deutschen Tugend). Nel presentare l’allestimento il presidente del museo, professor Raphael Gross, dichiarava: «La Germania è stata violentemente aggredita dagli altri Paesi europei quale rappresentante di una ben definita politica di austerità. In Germania si ha poca sensibilità per queste accuse. […] Qui potrebbe giocare un ruolo la comprensione storica […] Perché in Germania si è così orgogliosi, di essere il 'campione mondiale del risparmio'?».

Tutti sanno che dopo la Prima Guerra Mondiale la Germania si è sentita strangolata dai debiti di guerra e così anche dopo la Seconda. Nel 1919 il debito pubblico tedesco era già attorno al 175% del Pil. Lo scellerato Trattato di pace di Versailles, che impose alla Germania costi di riparazione pesantissimi, aumentò di un terzo tali oneri, per di più in valuta straniera. Il governo, incapace di onorare i propri impegni, si vide costretto a stampare moneta all’infinito causando quell’iperinflazione diventata storica: nel novembre del 1923 servivano 428 miliardi di marchi per un chilo di pane. Gli Stati Uniti cercarono di alleviare questo peso con prestiti e investimenti in Germania. Dopo la crisi del 1929 però il credit crunch (mancanza di liquidità finanziaria) costrinse gli americani a ritirare gli investimenti e i prestiti per la ricostruzione. Ciò provocò un nuovo tracollo economico tedesco e il disfacimento della Repubblica di Weimar. Da lì al Nazismo il passo è stato breve. Dopo quindici anni, nel 1945, la Germania si trovò di nuovo al collasso e sovraccaricata di debiti, tanto che si era tornati al baratto. Senza una lungimirante politica internazionale di condono e ristrutturazione delle scadenze il Paese non si sarebbe mai ripreso. Per lo spirito tedesco fu comunque una doppia umiliazione e una ferita del suo senso comunitario. La classe media, i risparmiatori che avevano finanziato il governo, era allo sbando, dopo che per anni era stato detto 'risparmiatori, state tranquilli'.

Un debito eccessivo significa perciò, nell’inconscio tedesco, perdita dell’autonomia: sia perché si è in balia della volubilità dei mercati e dei creditori, sia perché in caso di insolvenza si tramuta in iperinflazione. La storia segna la forma mentis di un popolo. Lo stesso atteggiamento neomercantilista, giustamente criticato dai liberali, che la Germania ha adottato dopo il 2000 attraverso una politica di forte surplus commerciale, mostra come tale Paese voglia ora giocare d’anticipo. Surplus commerciale significa acquisire credito con l’estero, significa potere commerciale, ma anche politico: 'Meglio si indebitino gli altri con noi che noi con gli altri', pensano i tedeschi, anche se ciò costa loro mancanza di investimenti interni e consumi minori. La mostra berlinese, coprendo due secoli di storia, celebrava la virtù tedesca del risparmio alla ricerca di miti fondativi del sentimento nazionale. Le famiglie tedesche pretendono che lo Stato, come un padre, onori le proprie responsabilità, morali prima che finanziarie. Gli altri europei sono figli dello stesso padre? Il padre dei tedeschi deve garantire anche per i fratellastri? Ai fratelli tedeschi spetta, dunque, capire che la comunità e la fratellanza non finisce al Reno (e un recente sondaggio dell’Istituto Max Planck indurrebbe a essere ottimisti: circa il 60%. dei tedeschi ha sentimenti, pur diversamente motivati, favorevoli all’Italia). Del resto, lo scrisse proprio un tedesco, Friedrich von Schiller, nell’'Ode alla gioia', su musica dell’immenso Ludwig van Beethoven, non a caso diventata Inno dell’Unione Europea: « Seid umschlungen, Millionen! / Diesen Kuss der ganzen Welt! / Brüder, über’m Sternenzelt / muss ein lieber Vater wohnen ». Siate stretti l’uno all’altro, o moltitudini! Questo bacio sia per tutto il mondo! O fratelli, sopra la volta stellata deve abitare un Padre che ci ama.

Sacerdote ed economista, residente a Berlino

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