sabato 30 luglio 2022
Oggi nel mondo più di un terzo del pescato non viene consumato ma si trasforma in scarto. Una minaccia che si aggiunge a sfruttamento eccessivo, inquinanti e acqua sempre più calda
Ogni anno il 10% del pesce catturato in natura in tutto il mondo è scartato poco dopo la pesca

Ogni anno il 10% del pesce catturato in natura in tutto il mondo è scartato poco dopo la pesca - Ansa

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Stai attento, squalo: questo è l’Antropocene. È paradossale che a causa delle narrazioni hollywoodiane sia lo squalo l’animale di cui abbiamo più paura in mare. È una paura reciproca, perché anche per lo squalo – ne sia o meno cosciente – la paura più grande in mare nasce dalla presenza dell’essere umano. Sopravvissuto alla fine del Cretaceo, all’era dei dinosauri, oggi lo squalo potrebbe non sopravvivere all’era dello sfruttamento incontrollato delle risorse. Nel Mediterraneo esistono 24 specie di squalo protette (tra cui lo smeriglio e il mako) di cui è vietata la cattura, la detenzione a bordo e la commercializzazione: il 50% di loro è a rischio estinzione. Eppure, solo dello smeriglio, la Guardia di Finanza ha sequestrato 742 chili di carne nel 2020. Chi mangia la carne di squalo? Tutti noi, perché spesso viene venduta come pregiato pesce spada, o come altre specie ittiche. Il dramma però è che sovente la carne di questa specie protetta viene trovata marcia, buttata nel cassonetto. Si pesca di frodo, anche in aree marine protette, sia in Italia che all’estero, per uccidere specie sempre più a rischio la cui carne, spesso, finisce direttamente nella spazzatura.

Il più grande crimine dell’uomo verso il popolo del mare è estinguerlo, senza neanche che questo sacrificio sia necessario: ci sono milioni di tonnellate di animali morti che vengono scaricate in mare, abbandonate sulla terraferma o lasciate a marcire nei negozi. Lo spreco di pesce non è mai stato così grande e anche qui c’è un paradosso: lo sfruttamento incontrollato delle risorse ittiche affama molte popolazioni che non hanno più pesce sufficiente per potersi alimentare.

Il sovrasfruttamento degli oceani a opera dell’uomo è tornato al centro del dibattito pubblico nell’ultimo anno grazie a un documentario ( Seaspiracy di Ali Tabrizi, su Netflix) e a una grande inchiesta del quotidiano inglese The Guardian. Il primo è più ricco di pathos che di dati affidabili ma ha avuto il pregio di raggiungere il grande pubblico (è risultato nella top 10 dei documentari più visti in 32 Paesi, tra cui l’Italia). La seconda fonte mostra invece le ultime statistiche sullo sperpero della nostra fauna marittima, tra cui quella che descrive come oltre un essere vivente pescato su tre viene buttato senza essere consumato.

La Fao stima infatti che il 35% di tutti i pesci, crostacei e molluschi pescati negli oceani, nei laghi e negli allevamenti ittici del pianeta sia sprecato o vada comunque perso prima di raggiungere la tavola. A livello europeo, secondo il Wwf, non meno di 230.000 tonnellate di pesce sono state scaricate nelle acque continentali solo nel 2019. Ma è una stima al ribasso: a febbraio scorso un solo peschereccio olandese è stato segnalato dopo aver rilasciato in mare 100.000 pesci morti al largo della Francia. I proprietari hanno parlato di un guasto, ma secondo alcune associazioni ambientaliste è stato fatto intenzionalmente. Perché? Innanzitutto, i pesci sono altamente deperibili e quindi facilmente diventano inservibili per usi alimentari. Quindi c’è un motivo commerciale: i grandi pescherecci si muovono con mega-reti a strascico che catturano un po’ di tutto. Per massimizzare la resa e scartare i “prodotti” lesionati si buttano via moltissimi “frutti” del mare. Così ogni anno circa il 10% del pesce catturato in natura in tutto il mondo è scartato poco dopo la pesca: 8,6 milioni di tonnellate di animali.

La sopravvivenza della popolazione marina è già stressata dall’acidificazione degli oceani, causata dal riscaldamento globale, e dall’inquinamento della plastica. Una questione enorme, almeno quanto il Canada: è infatti pari all’estensione della nazione nordamericana la grandezza della più grande isola di plastica al mondo, posizionata al largo dell’Oceano Pacifico (la più vasta, ma ce ne sono altre cinque enormi). E se questa è l’eredità di un passato recente inconsapevole, il presente – nonostante le ormai tantissime campagne informative sul tema – ci dice che ogni minuto nel mondo è come se venisse scaricato un camion pieno di rifiuti plastici negli oceani.

Cambiamenti climatici e inquinamento aggravano quindi la sopravvivenza della fauna marittima, ma è la pesca eccessiva a minacciare drasticamente il suo futuro: secondo le previsioni attuali, il consumo di pesce dovrebbe raddoppiare entro il 2050. Al momento la soluzione che si è messa in atto risiede nei sistemi di allevamenti ittici, che da soli generano più della metà del nostro approvvigionamento di pesci. Una soluzione agli sprechi della pesca selvaggia, che però comincia a presentare alcune problematiche simili agli allevamenti intensivi di bovini, suini e pollame: animali ammassati in spazi ridotti che a volte si infettano e contaminano gli altri. Non è un caso che lo spreco di carne animale sia un problema enorme anche sulla terraferma, dove ogni anno sono buttati senza essere consumati oltre 14 miliardi di animali (soprattutto polli) sui circa 70 allevati per il consumo alimentare umano. Lo sfruttamento della vita animale passa poi da legittime considerazioni etiche, che anche nel caso della pesca devono fare il paio con la fine sempre più urgente delle mattanze di animali per motivi ludici. Avvenire ha raccontato di celebrazioni come il Grindadráp, la caccia ai delfini che si svolge ogni anno sulle Isole Faroe e che il 12 settembre 2021 è stata immortalata con una foto che mostrava 1.500 delfini distesi su una spiaggia: massacrati in un solo giorno, e non certo per sfamare i 53mila abitanti faroesi. Anche in questo caso, una gran quantità di questi delfini uccisi per gioco sarà comunque sprecata.

Eppure in molti avrebbero bisogno di questo approvvigionamento alimentare: secondo la Fao la dieta di 3 miliardi di esseri umani dipende dal pesce. Per fare un esempio raccolto dal Guardian, circa il 40% delle licenze industriali in Sierra Leone è detenuto da pescherecci cinesi: tutto legale, ma è un vero e proprio dominio commerciale del mercato che lascia gli autoctoni a bocca asciutta. La Cina è costantemente classificata come il peggior trasgressore per la pesca illegale in un ranking globale che comprende 152 Paesi. Si stima che Sierra Leone, Senegal, Mauritania, Gambia, Guinea Bissau e Guinea perdano 2,3 miliardi di dollari all’anno a causa della pesca illegale, che in numeri supera la metà delle catture legali dichiarate in questi Paesi. Oltre allo sfruttamento commerciale dei mari nei Paesi più poveri si somma un tema di inadeguatezza tecnologica alla conservazione e al trasporto del pesce. Secondo uno studio in Togo, Burkina Faso e Ghana, il 65% del pesce perso sulla terraferma è attribuibile alla cattiva gestione, alla mancanza di strutture di stoccaggio e alle inefficienze lungo la catena di approvvigionamento. Così in questi Paesi il pesce si perde, più che essere sprecato. Mentre in quelli a più alto reddito si spreca: sempre la Fao stima che il 27% di tutto il pesce a livello globale vada perso dopo lo sbarco.

Ma alla fine della filiera del grande spreco ci siamo ancora noi consumatori: negli Stati Uniti, una ricerca dimostra che fino al 63% dello spreco del pesce è dovuto al fatto che i consumatori gettano nella spazzatura quello che non consumano. E noi italiani? Secondo un recentissimo rapporto del Centro Comune di ricerca della Commissione Europea l’Italia è stato il Paese più sprecone d’Europa tra il 2000 e il 2017 con oltre 270 milioni di tonnellate di alimenti buttati. Per quanto riguarda in particolare il pesce, siamo terzi (dopo Spagna e Francia) con 400.000 tonnellate buttate ogni anno. Per questo aspetto basta poco per cambiare: bisogna cominciare a comprare solo quello che ci serve e che riusciamo effettivamente a consumare. Anche il mare ce ne sarà grato.

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