mercoledì 30 marzo 2016
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I l precedente risale a quarantacinque anni fa, proprio nei primi giorni di aprile. La squadra di tennis-tavolo americana, che stava disputando il campionato mondiale in Giappone, ricevette un invito dalla squadra della Repubblica Popolare Cinese per disputare alcune partite in Cina. Quattro giorni dopo, il 10 aprile 1971, i pongisti e alcuni giornalisti al seguito furono i primi americani a mettere piede in Cina da quando, ventidue anni prima, Mao Zedong aveva assunto il potere. Proprio quell’episodio creò le condizioni per la storica visita di Richard Nixon in Cina, dieci mesi dopo. Quel momento, rievocato anche nel film Forrest Gump , fu decisivo per allentare le tensioni di quella Guerra Fredda che ancora a lungo terrorizzò il mondo. Si dice che l’anno successivo Fidel Castro, al rientro da un suo viaggio in Vietnam, pronunciasse una frase destinata ad anticipare la storia: «Gli Stati Uniti dialogheranno con noi quando avranno un Presidente nero e quando ci sarà un Papa latinoamericano ». Vere o solo verosimili che fossero quelle parole, sta di fatto che il Papa latinoamericano ha gettato un ponte di dialogo tra Washington e la Casa Bianca e ha incluso Cuba e Stati Uniti nello stesso viaggio apostolico nel settembre dello scorso anno. Il Presidente nero, invece, in occasione della sua recente e storica visita ufficiale a Cuba, ha detto di essere lì proprio «per seppellire ciò che resta della Guerra Fredda». Il momento simbolicamente più significativo della visita è stato quello in cui la bandiera americana è stata issata al fianco di quella cubana per una partita-esibizione di uno sport amatissimo da entrambi i Paesi: il baseball. L’amichevole, termine davvero appropriato, fra la nazionale cubana e i Tampa Bay Rays di Miami ha portato sugli spalti dell’Estadio Latinoamericano sessantamila spettatori, gli stati maggiori della politica dei due Paesi, ma soprattutto Barack Obama e Raul Castro, seduti uno di fianco all’altro, in maniche di camicia e senza cravatte d’ordinanza. Prima della sfida, Obama ha presentato a Castro la vedova di Jackie Robinson, primo giocatore afroamericano a militare nella Major League di baseball. Minacciato di morte, insultato durante le partite, invitato con disprezzo a lasciare i campi da baseball per tornare in quelli di cotone, Robinson fu capace grazie alla sua tenacia di cambiare un paradigma. Chissà se avrebbe mai immaginato che sua moglie, un giorno, avrebbe viaggiato a bordo dell’Air Force One ospite di un Presidente coloured. Per l’ennesima volta lo sport ha dimostrato al mondo la sua capacità di essere linguaggio universale, proprio come la musica, protagonista pochi giorni dopo, con l’altrettanto storico concerto dei Rolling Stones nella Ciudad Deportiva della bellissima capitale cubana. Ho avuto l’onore di giocare, con la nazionale italiana di pallavolo, in quel palazzetto tutto fatto di legno. C’è una scritta gigantesca che troneggia sopra le tribune: «El deporte derecho del pueblo», lo sport diritto del popolo. Lo sport si scopre strumento privilegiato di diplomazia, grazie alla sua capacità di avvicinare i popoli che, come di un diritto, dovrebbero poterne godere in ogni parte del mondo. Speriamo allora che i sessantamila spettatori dell’Estadio Latinoamericano , dopo aver osservato rispettosamente un minuto di silenzio in memoria delle vittime di Bruxelles, abbiano saputo quanto successo, poco dopo, in un piccolo campo sportivo ad Al Asriya, in Iraq. Un kamikaze ha fatto esplodere la sua cintura durante la cerimonia di premiazione di un torneo di calcio giovanile, uccidendo 41 persone nella quasi indifferenza del mondo intero. Probabilmente lo sport non è solo diritto, ma anche dovere. Perché contribuire a migliorare un po’ questo mondo è dovere di tutti. Per la cronaca, la partita dell’Avana passata alla storia come quella della 'diplomazia del baseball' l’ha vinta la squadra Usa 41. Questo sì che non se lo ricorda nessuno, e va bene così. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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