mercoledì 1 aprile 2009
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Caro Direttore, nella chiesa che frequento m’è capitato, a volte, di ascoltare il Padre nostro cantato sulle note di «The Sound of Silence», una bella canzone di Simon & Garfunkel degli anni Sessanta, colonna sonora di un altrettanto bel film anche se per nulla edificante («Il laureato»). Ogni volta che la sento provo un turbamento non indifferente per esser riportato, in chiesa, alle scene del film e ai momenti in cui la ballavo nei locali notturni di allora. Durante quelle note, nel mio cervello, le parole del 'Padre nostro' automaticamente vengono sostituite dai versi della canzone che in italiano raccontano che «…la gente s’inchinò a pregare il dio neon che aveva costruito» e che «…le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana e negli ingressi delle case popolari». Ho chiesto spiegazioni di questo rituale e m’è stato risposto che è un motivo diffuso, anche in altri Paesi europei (forse memoria di un antico canto popolare), che alla gente piace, soprattutto ai ragazzi, e che anche questo è un modo per attrarli. La contro-argomentazione della necessità di educare i ragazzi, e gli adulti, è caduta nel vuoto. La mia età non mi consente d’impegnarmi in battaglie già perse, né di attendere un altro Ildebrando di Soana o un nuovo Vaticano II per ottenere convincenti indicazioni sulla musica da adattare alla liturgia. Ho, invece, la fortuna di poter frequentare anche un convento benedettino e di potermi liberare dall’ansia di quale 'Padre nostro' dover subire la domenica: con buona pace di tutti, a ciascuno la sua Messa. Ma è giusto che anche la Chiesa spinga i fedeli all’incultura del mondo, fino a che televisione, cinema, giornali e religione siano omologati in un unico pensiero e in un unico linguaggio? Avvenire mi sembra diverso e in grado di dirmi se sono già fuori dal mondo.

Lettera firmata

I suoi rilievi, caro amico, esprimono le perplessità di una persona che immagino mia coetanea, appartenente cioè alla generazione di coloro che erano giovani o giovanissimi negli anni di quel rinnovamento post­conciliare che ha toccato tutta la vita della Chiesa, a partire proprio dalla liturgia. La melodia in questione, che – a quanto lei ci dice – sarebbe oggi usata in una versione cantabile del Padre nostro, fu pubblicata nel 1966 in un disco del celebre duo statunitense Simon & Garfunkel. Il testo originale, che affrontava il tema dell’incomunicabilità generazionale, non è certo noto quanto la popolarissima traccia musicale la quale – grazie anche al film che «lanciò» Dustin Hoffman – divenne uno dei prodotti e delle sigle di culto del Sessantotto, facendo in pratica da colonna sonora al movimento studentesco. Ora, comprendo lo stupore e il disappunto che si può provare nell’ascoltarla oggi durante la Messa, quale accompagnamento della principale preghiera cristiana, quando per decenni le sue note sono state associate a immagini di assemblee studentesche, di scontri con la polizia, di raduni hippy, di trasgressioni varie. La cosa, però, ci offre l’opportunità di riflettere su un’errata nozione di «modernizzazione» liturgica, debole nel discernere la portata delle presunte «novità», anche in un campo come quello della musica sacra. Il Concilio Vaticano II ha promosso l’apertura alle forme della contemporaneità, ma non ha affatto dimenticato la ricchezza e la bellezza della tradizione, che anzi va scoperta, valorizzata, amata. Lo ha ricordato a chiare parole Papa Benedetto XVI, a cui la questione musicale sta molto a cuore, il 13 ottobre 2007, in occasione della sua visita al Pontificio Istituto di Musica sacra: «... Mi è caro, in questa sede, rammentare ciò che dispone in merito alla musica sacra il Concilio Vaticano II: muovendosi nella linea di una secolare tradizione, il Concilio afferma che essa 'costituisce un tesoro di inestimabile valore che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne' (Sacrosanctum Concilium, 112). Quanto è ricca la tradizione biblica e patristica nel sottolineare l’efficacia del canto e della musica sacra per muovere i cuori ed elevarli a penetrare, per così dire, nella stessa intimità della vita di Dio... Proprio in vista di ciò, l’Autorità ecclesiastica deve impegnarsi ad orientare sapientemente lo sviluppo di un così esigente genere di musica, non 'congelandone' il tesoro, ma cercando di inserire nell’eredità del passato le novità valevoli del presente, per giungere ad una sintesi degna dell’alta missione ad essa riservata nel servizio divino». Al di là di tutto, dico io, c’è anche un problema, oltre che di buon senso, di conoscenza minima delle cose. Nessuno pretende che i nostri sacerdoti siano competenti sulle produzioni artistiche americane degli ultimi trenta/quarant’anni. Ma quando non si sa, è saggio informarsi.

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