sabato 22 agosto 2015
Mucche, galline e maiali stipati in spazi angusti, imbottiti di antibiotici. L'obiettivo è ottenere il massimo profitto col minimo dispendio. Ma con elevati costi ambientali, sanitari e morali.
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Lo spazio di un foglio A4 per una gallina ovaiola. Un metro quadrato per un suino da ingrasso. Mucche da latte 'a pascolo zero'. Animali tenuti in ambienti sovraffollati, in condizioni del tutto innaturali, privati delle più vitali necessità (razzolare, grufolare, pascolare), della possibilità di muoversi, girarsi. Restano pressoché immobili per tutta la loro esistenza. Sottoposti a uno stress psico-fisico costante che li espone a infezioni e malattie. Prevenute o curate con dosi massicce di farmaci. Un dato per tutti: circa la metà degli antibiotici prodotti globalmente vengono utilizzati nell’'industria della carne' (Stime dell’Oms): inquinano la faglia (dove finiscono le deiezioni) e forniscono la base perfetta per lo sviluppo di batteri super-resistenti che minacciano la sicurezza alimentare e la salute umana.   Succede negli allevamenti intensivi: una macchina per la produzione di cibo che sta, in realtà, mangiando il pianeta. L’obiettivo di queste strutture è ottenere il massimo profitto con il minimo dispendio. E pazienza se il prezzo finale, quello pagato dall’ambiente, dagli animali, e, in ultima analisi, da noi, sia del tutto insostenibile. Basti dire che gli allevamenti intensivi sono ai primi posti tra i fattori che determinano il problema della fame nel mondo: più della metà dei cereali prodotti nel pianeta è destinato all’alimentazione animale (dati Fao), con un rapporto tra cibo (vegetale) consumato per produrre cibo (proteine) del tutto svantaggioso (il cosiddetto 'indice di conversione'). E con un progressivo depauperamento delle terre. Incredibile anche l’impatto ambientale. Secondo la Fao, gli allevamenti intensivi sono responsabili del 14,5% delle sole emissioni di Ghg (Gas serra): più di tutte le auto, i treni e gli aerei messi insieme. Ma se si considera l’intera filiera della carne (produzione dei mangimi inclusa) si supera abbondantemente il 50%. Infine, per niente trascurabile, l’elemento etico. Al di là delle singole sensibilità, le più recenti normative recepiscono un concetto ormai largamente condiviso dalla comunità scientifica - e chiaramente espresso in sede comunitaria nel Trattato di Lisbona -: gli animali sono esseri 'senzienti' e come tali vanno rispettati. Eppure gli interessi economici prevalgono. A discapito della salute degli animali, che è poi la nostra salute, considerato il fatto che ce li mangiamo.   Dal gennaio 2012 è vietato, grazie a una legge europea, tenere le galline ovaiole nelle cosiddette 'gabbie convenzionali'. Gabbie minuscole, totalmente spoglie, organizzate in file alte molti metri: gli animali non vi possono nemmeno distendere le ali. La nuova normativa prevede gabbie un po’ più grandi, con nidi e trespoli, le cosiddette 'gabbie arricchite'. Solo un piccolo passo in più, sebbene ancora insufficiente.  «L’Italia - 43 milioni di galline - si è mossa con molto ritardo. E nel 2014 è stata aperta una procedura di infrazione contro il nostro Paese per il mancato adeguamento», spiega Annamaria Pisapia, direttore di Ciwf (Compassion in World Farming) Italia Onlus, l’unica associazione nel nostro Paese che lavora esclusivamente per la protezione e il benessere degli animali negli allevamenti, in collaborazione con CIWF International, a cui è affiliata. Mentre c’è ancora forte resistenza verso gli allevamenti a terra, considerati troppo dispendiosi. I numeri in Italia: il 72% delle galline sono in gabbia, il 23% a terra.   Quanto ai maiali, il loro allevamento in Europa è sottoposto a una normativa specifica (La Direttiva 2008/120/CE sulla protezione dei suini). Prescrive recinti con spazi vitali di almeno un metro quadro ad animale e impone che i suini (animali molto intelligenti, curiosi e attivi) possano disporre di 'arricchimenti ambientali', quali paglia o materiali analoghi. In Italia sono 9 milioni i suini da ingrasso.  «Purtroppo, negli allevamenti intensivi italiani l’unico 'arricchimento', quando presente, è qualche catena lasciata penzolare qua e là - spiega Pisapia di Ciwf -. I maiali finiscono per giocare con la coda dei loro simili, mordendola. La 'soluzione' trovata dagli allevatori è quella di amputarla, quando sono piccoli. Una pratica attuata in modo sistematico, contrariamente alla legge, e senza anestesia».  Per l’allevamento delle mucche da latte non esiste una legislazione specifica. Il riferimento è la Direttiva Europea 98/58/CE che protegge gli animali da allevamento in generale, chiedendo di evitare loro 'inutili sofferenze'. La maggioranza delle mucche da latte italiane (due milioni di animali) vengono tenute in stabulazione libera, nelle stalle, ma non sono mai al pascolo. «Sono costrette a produrre 60 litri di latte al giorno contro i 10 previsti dalla natura - sottolinea Pisapia -. La conseguenza sono continue mastiti. E quindi continue sofferenze e trattamenti farmacologici». La loro è una 'vita 2.5 lattazioni': «Significa che dopo aver partorito una media di due vitelli e mezzo, già stremate, devono essere avviate al macello».  Ettore Prandini, vice-presidente nazionale della Coldiretti, spiega che gli allevamenti italiani rispettano pienamente le normative europee. E che il nostro Paese mantiene livelli di eccellenza, sia per quanto riguardo le strutture sia per la qualità della carne. «Le mucche non sono più alla catena, hanno 'cuccette' ampie, e paddock esterni in cui deambulare. Le stalle vengono rinfrescate con ventole o nebulizzatori. A differenza degli Stati Uniti, qui non usiamo ormoni, e i controlli sul prodotto finale sono capillari». Il problema, secondo Prandini, è che altri Paesi europei, soprattutto quelli dell’Est, fanno 'concorrenza sleale', creando difficoltà agli allevatori italiani. «Dove sono finite le gabbie convenzionali che noi abbiamo dovuto sostituire? In Romania, dove continuano a usarle, abbattendo i costi. Quanti controlli facciamo sul latte? 20mila campioni al giorno. Loro ne faranno 20mila all’anno, e utilizzano abbattitori o centrifughe che qui sono proibiti. Al contrario, noi puntiamo alla qualità, e abbiamo un’attenzione spasmodica al benessere degli animali perché è nel nostro primo interesse».   La Lav - associazione italiana che lotta per i diritti degli animali - ha un altro punto di vista. «È rispettare il benessere animale castrare i maialini (tutti) nella loro prima settimana di vita senza anestesia? chiede Il vicepresidente dell’organizzazione, Roberto Bennati - . È rispettare il benessere animale spremere una mucca così tanto da farla vivere 5 anni quando potrebbe arrivare a 30? È rispettare il benessere animale trascinare per le zampe, con una ruspa, una 'mucca a terra' - le mucche che, stremate, non si reggono più in piedi - per caricarla tra atroci dolori su un camion verso il macello? È rispettare il benessere animale tenere una gallina, animale progettato dalla natura per proteggersi dai predatori, in una gabbia dove non si può muovere? Il fatto è che l’anestesia per un suinetto costa; costa garantire una vita (e una morte) dignitosa a una mucca, o una gallina. E invece che a risparmiare sofferenze inutili agli animali si punta a risparmiare e basta. Il modo in cui vengono trattati gli animali oggi negli allevamenti intensivi è del tutto incompatibile con la loro vita etologica».   Tutto questo mentre i nutrizionisti, concordemente, e con appelli sempre più pressanti, raccomandano di diminuire drasticamente il consumo di carne. 'Meno quantità, più qualità'. Una logica esattamente contraria a quella che regola l’attività delle 'fabbriche di carne'. Gli allevamenti intensivi insistono quindi su un meccanismo paradossale, in linea di collisione con l’ambiente, con la salute umana, con il buon senso. E con gli interessi dei consumatori. Che sempre più cominciano a chiedersi cos’hanno nel piatto: quanta qualità, ma anche quanto spreco, quanto dolore. E che sono, davvero, i protagonisti della battaglia per il cambiamento appena cominciata. Anche al supermercato.
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