giovedì 2 giugno 2011
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È lecita l’uccisione del tiranno? L’interrogativo è recentemente tornato d’attualità ed è oggetto di discussione a seguito dell’eliminazione fisica di Benladen e dei bombardamenti dei bunker nei quali potrebbe nascondersi Gheddafi. Benladen è stato un criminale, il suo brutale operato deve essere denunciato in tutta la sua efferatezza. Gheddafi è un feroce dittatore, avvitato sul proprio potere, a difesa del quale non si fa scrupoli di eliminare fisicamente gli oppositori e di far vittime innocenti tra il suo popolo. Il male va chiamato per nome, smascherato e riprovato nella sua malvagità. Detto questo, è però anche vero che uccidere per vendetta il malvagio è moralmente inaccettabile. Per due ordini di motivi. Il primo è il bene inviolabile della vita. Anche la vita di Caino è sacra. Per questo anche da lui bisogna tirar via le mani. È vero che verso il malvagio non siamo emotivamente ben disposti: l’inimicizia, che il male provoca, induce reazioni di ostilità. Ma la risposta non deve essere emotiva e passionale, quanto piuttosto intelligente, ovvero capace di attraversare il male e raggiungere il bene, e da questo lasciarsi illuminare e dirigere. Il bene qui è la vita di una persona: bene inoggettivabile (che non può essere ridotto a cosa), indelebile (che il crimine non annulla) e perciò insopprimibile. In presenza del quale vale il comandamento «non uccidere»: principio primo e qualificativo di una cultura della morale e del diritto. Il secondo ordine di motivi è l’escalation di violenza che la vendetta innesca. Quella spirale perversa di ritorsione e rappresaglia che trasforma in faide le relazioni e le competizioni umane e, per di più, su uno scacchiere che sta assumendo le dimensioni del mondo. La logica della vendetta non ha mai rappresentato un segno di civiltà e di sviluppo: non lo è per le persone e le associazioni, non può esserlo neppure per le società e le nazioni. Con essa si rafforzano le avversioni e gli odi. Lo provano le voci di nuovo terrore che si levano per vendicare l’uccisione del capo. Mentre dall’altra sponda si potenziano i sistemi di sicurezza per sventarlo. E, se dovesse succedere, i colpiti che faranno? Colpiranno a morte i nuovi capi? A far temere il crescendo di vendetta sull’altro fronte, quello libico, sono le ritorsioni repressive e terroristiche minacciate da Gheddafi e rilanciate dal suo entourage. È vero che il «non uccidere» non vale in assoluto. Lo eccepisce infatti il principio di legittima difesa, principio eticamente ragionevole e rigoroso ma inapplicabile nel caso di Benladen: riguardo al blitz, perché gli incursori non hanno dovuto difendersi da minacce cruente di Benladen; e riguardo alle stragi d’innocenti di cui lo sceicco del terrore avrebbe potuto farsi ancora promotore, perché la sua soppressione non è garanzia di cessazione di tali eccidi. Non vale qui il principio del tirannicidio a tutela degli oppressi e degli inermi: in passato le vessazioni erano compiute dalla persona del tiranno, eliminato il quale erano liberati gli inermi da lui vessati. Molti temono che, eliminato Benladen, non solo il terrore non cessi ma s’estenda e s’aggravi. Questo perché oggi il potere del terrore non comincia né finisce con il tiranno, ma sta nella rete di tirannia da lui intessuta e che a lui sopravvive. Riguardo a Gheddafi, a sua volta, è ragionevole e praticabile la via del depotenziamento militare e della denuncia e consegna a una corte internazionale di giustizia. In una società in via di globalizzazione, rischiamo di mondializzare le forze del male più di quelle del bene. Rischio legato all’ascolto degli istinti più che dell’intelligenza, dando per essi facile sfogo alla vendetta. Questo mondo, volto a impiantare una civiltà del bene e del diritto, non ha bisogno di vendicatori, puntuali esecutori della legge del taglione, ma di riconciliatori: uomini e donne che credono nella forza del bene. Coscienze – diciamolo con san Paolo (Rm 12,21) – che «non si lasciano vincere dal male, ma vincono il male con il bene».
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