venerdì 8 luglio 2011
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Sono passati due mesi da quando le Regioni italiane hanno cominciato a gestire l’emergenza profughi. Non conosco l’intero quadro della situazione. Credo però di poter fare, in base alle mie osservazioni sul campo, qualche considerazione utile.Si è rivelata infondata, tanto per cominciare, la paura che le popolazioni locali facessero fatica ad accettare una massiccia e improvvisa presenza di stranieri. La gente si è attivata per fornire generi di prima necessità come vestiti e scarpe. Sono state offerte scorte alimentari dai panettieri, sono stati fatti interventi gratuiti da parte di dentisti e di idraulici. Il lavoro più importante, naturalmente, è stato svolto dai volontari delle varie organizzazioni di assistenza. Utilizzando strutture talvolta poco adatte alle esigenze, con turni di servizio molto ravvicinati, i volontari operano con un’alta professionalità e riescono a gestire situazioni che richiedono ogni giorno soluzioni veloci e creative. Ma c’è dell’altro. Questa emergenza ci ha fatto conoscere dei giovani forti e coraggiosi. Ho frequentato i primi quattro turni del centro col quale collaboro. Ci sono giovani di tutti i Paesi del golfo di Guinea, ma anche di Paesi sahariani come Mali e Ciad. Alcuni vengono perfino dal Bangladesh. Hanno titoli di scuola tecnica o professionale e una lunga esperienza lavorativa, tra Paesi di origine e soggiorno in Libia. Molti sono partiti con la moglie e ora, assieme ai bambini, vivono le conseguenze dolorose di un fallimento di cui non sono colpevoli. Nonostante le diverse culture di provenienza, riescono a convivere senza frizioni nei centri che li ospitano. Nell’ultimo gruppo ci sono tre giocatori di calcio che erano stati ingaggiati da squadre libiche; il gruppo ha deciso di aiutarli a non perdere la forma con una partita giornaliera di calcetto. Sono in gran parte musulmani, ma non perdono le lezioni di italiano del prete cattolico. Quando la Regione – per ragioni logistiche – li trasferisce (ed è già la terza volta che accade), il loro rammarico per la perdita della scuola è grande. Quelle due ore giornaliere di lingua sono il solo momento organizzato della giornata, fondamentale per resistere alle tipiche «malattie da inazione», che possono giungere anche alla depressione o alla regressione infantile. Viene da domandarsi perché non si possa reclutare, per una accoglienza che non sia fatta solo di «mangiare e dormire», qualcuno dei laureati abilitati per insegnare la lingua agli stranieri. Lo farebbero, probabilmente, solo per il vitto e un voucher che testimoni in futuro il lavoro svolto. E perché non immaginare qualche altra forma di occupazione che elimini il senso di inutilità delle giornate?Come si può vedere dalla lettera che pubblichiamo a corredo degli articoli di pagina 6, questi giovani sanno essere riconoscenti per l’aiuto ricevuto. Dovremmo essere a nostra volta riconoscenti nei loro confronti. L’emergenza scaturita dalla loro tragedia ci ha colti non del tutto preparati. Da un’analisi delle nostre attuali insufficienze possiamo partire per impostare una rinnovata pratica di solidarietà.
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