venerdì 5 giugno 2015
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L’alimentazione, i modi per procacciarsi il cibo, prepararlo, conservarlo e consumarlo, i rapporti con gli altri aspetti della vita di una civiltà, dalle arti alle scienze alla medicina, sono stati a lungo oggetto solo di una 'storia minore' che confinava con la curiosità e l’erudizione e che nella migliore delle ipotesi riguardava i folkloristi, gli 'storici delle tradizioni popolari'. Nella cultura di derivazione grecoromana i cinque sensi erano rigorosamente ordinati in una gerarchia a seconda della loro 'spiritualità' o 'corporeità': pertanto ai due sensi più nobili, la vista e l’udito, venivano accostate le arti, la poesia e la musica, mentre tatto, gusto e olfatto venivano collegati a un più basso gradino, corrispondente alla materialità e alla corporeità delle sensazioni che provocavano e delle attività nelle quali erano coinvolti.   Questa lunga, tenace catena di pregiudizi estetici e culturali cominciò a mostrare delle crepe concettuali nella seconda metà del secolo scorso con la nouvelle histoire di Fernand Braudel e della sua scuola. In quell’ambito si inaugurarono nuove discipline che toccavano i campi, ad esempio, della 'storia delle mentalità' e della 'storia materiale'. In questo crocevia si situarono esperienze innovative di storie 'dei cinque sensi', con sviluppi sorprendenti, ad esempio nella direzione della 'storia dei profumi e degli odori' e della storia non tanto 'del gusto alimentare', della gastronomia, della tavola e della tassonomia delle vivande quanto delle vere e proprie 'strutture del gusto'.  Alla luce di questo rinnovamento tematico e metodologico degli studi, la storia 'del cibo' e 'dell’alimentazione' ha potuto registrare un deciso salto di qualità. La storia dell’alimentazione si faceva in genere cominciare, fino a pochi decenni or sono, dall’inizio della storia stessa intesa come risposta alla volontà di organizzare e di tramandare la memoria per mezzo della scrittura. Ma il progresso delle tecniche e dei sistemi d’interrogazione del passato ha consentito di servirsi della paleoantropologia e dello studio dei fossili e dei depositi di rifiuti, fonte inesauribile di preziose notizie. I risultati di queste ricerche, ormai da tempo trascorsa la loro fase pionieristica, hanno consentito di tracciare una dinamica delle strategie alimentari dei 'popoli senza storia'. Si tratta di un lavoro generoso di risultati sovente sorprendenti.  I costumi alimentari differenti dai propri sono generalmente uno dei principali elementi di dibattito quando si descrive una permanenza in paesi nuovi, a maggior ragione se esotici. Quel che mangiano 'gli altri' è insomma spesso uno dei tratti distintivi di una civiltà rispetto alle altre. È un dato riscontrabile ancora oggi, in tempi di viaggi e turismo globali, e lo era ancor di più in tempi passati. Quando Amerigo Vespucci descriveva i costumi delle genti del Nuovo Mondo, gli indigeni della costa dell’attuale Brasile, ne sottolineava la barbarie a partire dall’assenza di regole del civile convivio a tavola: «El modo del lor vivere è molto barbaro, perché non mangiano a ore certe, e tante volte quant’e’ vogliono, e non si dà loro molto che la voglia venga loro più a mezza notte che di giorno, ché a tutte ore mangiano. El lor mangiare è nel suolo senza tovaglia o altro panno alcuno, perché non ne tengono; tengono le lor vivande o in bacini di terra che lor fanno, o in mezze zucche». E questo nonostante il fatto che il cibo consumato non fosse poi da disprezzare, come si legge: «Trovammo che facevono pane di pesci piccoli che pigliavon del mare, con dar loro prima un bollore, amassarli e farne pasta di essi, o pane, e li arrostivano in sulla brace: cosi li mangiavano. Provammolo e trovammo che era buono. Tenevono tante altre sorte di mangiari, e maximi di frutte e radice, che sarebbe cosa larga raccontarle per minuto». Una ricetta che potrebbe vagamente ricordare la preparazione dei bianchetti, o 'schiuma di mare', in Liguria e in altre parti d’Italia.   Per quanto riguarda la cultura europea, però, questo interesse per le codificazioni alimentari non è antichissimo. Prendiamo il caso di Marco Polo e del suo Milione. La mancata menzione da parte del veneziano delle bacchette, abituale strumento cinese per mangiare, è una delle ragioni che più spesso vengono addotte per gettare discredito sulla sua testimonianza. Gli europei del Duecento, però, non avevano un’etichetta particolare per quanto concerne lo stare a tavola: la forchetta era conosciuta ma poco utilizzata; mangiare con le mani era diffuso come anche servirsi di punteruoli per infilzare, cosicché le bacchette non dovevano parere poi tanto differenti ed estranee come sembrano a noi oggi. Inoltre, mentre il veneziano è un ottimo narratore per tanti aspetti del costume, lo è assai meno in relazione al cibo; e la stessa cosa può dirsi per la maggior parte dei suoi contemporanei. Bisognerà attendere almeno il Quattrocento per leggere resoconti di ciò che si mangiava lontano da casa. Come nel caso raffinato di Anselmo Adorno, nativo delle Fiandre in una famiglia di origine genovese, che parla di un banchetto durato una giornata consumato nel Vicino Oriente. Gli vengono serviti piccoli gnocchi di pasta chiamati byzin, avvolti nella sfoglia di farina mista a miele, olio e uva; poi la nobile pastilla, un pollastro al forno rivestito di pasta tirata con le uova; quindi frutta fresca e secca, e grani di papavero.  A sera il pasto riprende: ed ecco allora il couscous, di cui si descrivono preparazione, presentazione, aspetto e rituali di consumo, sottolineando come i bocconi confezionati abilmente con le dita della destra vanno gettati in bocca facendo attenzione a che le dita non tocchino mai le labbra.   Ma Adorno ci presenta usi e vivande di un ambiente agiato. Vediamo ora invece il 'cibo degli altri' più modesto, così come lo descrive il prete-scrittore-pellegrino Michele, nativo di Figline Valdarno, che, al termine di un viaggio tra Egitto e Terrasanta compiuto tra 1488 e 1489, descrive la preparazione di una sorta di kebab: «Ànno le caldaie murate che tenghono 2 o 3 barili et la mattina, quando son cotte, mettono luminegli come si fa alle lampane et quella che n’à più, quella è più grassa et così chi volessi arrosto, mettono un poco di carne in uno fusciello et arrostonlla, o veramente la battono et con essa cipolle trite».  O ecco quanto vede e testimonia sulla strada tra Gaza e Gerusalemme: «Fu cotto loro uova come frictata in certi testi di terra (scil, recipienti di terracotta) et ghallavono (galleggiavano) nell’olio et certe cofaccie (focacce) cocte nella brace, così calde, che in tutto questo viaggio non mangiai di miglior voglia, et dell’uve dell’acqua che ci parve andare a noze». luoghicmyk.jpg Stralcio tratto dall’articolo che apparirà su 'Luoghi dell’Infinito' di giugno, in edicola da martedì 9.
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