Gli sfruttati tra (e da) noi
venerdì 13 agosto 2021

Il «pane delle anime», che eleva lo spirito umano, è ferito «dalla voracità di uno sfruttamento che agisce nell’ombra, cancellando volti e nomi». Così papa Francesco, nella sua accorata risposta a una lettera aperta dello scrittore Maurizio Maggiani, sul caso dei lavoratori pachistani schiavizzati nel lavoro in appalto presso un’industria poligrafica. Sono 2,35 milioni i cittadini stranieri regolarmente occupati in Italia, oltre il 10% del totale, senza contare chi è privo di un regolare contratto, quindi più esposto allo sfruttamento.

E il Papa ha ricordato che durante i lunghi mesi del confinamento da Covid-19 abbiamo scoperto il ruolo dei «lavoratori essenziali»: «dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c’erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi – benché primi! – gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno». Si può aggiungere: nello stesso periodo, dai riders agli addetti alle pulizie, dai corrieri agli ausiliari della sanità e dell’assistenza, altre centinaia di migliaia di lavoratori misconosciuti, non sempre ma spesso immigrati o di origine immigrata, hanno assicurato attività cruciali. L’abbiamo presto dimenticato, così come le nostre istituzioni hanno omesso di vigilare adeguatamente sulle condizioni in cui quel lavoro viene svolto, anche quando è coperto da contratto.

In questi stessi giorni, in cui il tema degli incidenti mortali sul lavoro torna tragicamente sulle prime pagine dei quotidiani, ben quattro casi tra quelli riportati riguardano lavoratori e lavoratrici di origine immigrata. Nel 2020, il 17,5% degli infortuni sul lavoro hanno coinvolto stranieri (11° Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro italiano): un dato più che proporzionale alla loro incidenza dell’occupazione, certificandone la maggiore esposizione al rischio. Il lavoro degli immigrati, soprattutto da noi, rientra in larga misura nell’ambito dei lavori delle 'cinque P': pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente.

Nel denunciare questo fenomeno, il rischio è quello di alimentare un massimalismo spesso strumentale: allora chiudiamo i confini, perché «fanno entrare gli immigrati per sfruttarli». L’economia italiana richiede (anche) molto lavoro manuale, poco qualificato o come tale classificato.

Basti pensare ai servizi per le famiglie, al basso terziario urbano, all’agricoltura mediterranea. Senza braccia, molte attività cesserebbero, coinvolgendo anche datori di lavoro e lavoratori italiani. D’altronde per chi arriva da Paesi meno fortunati, anche i lavori delle 'cinque P' sono un’opportunità: rimesse da mandare alle famiglie oggi, speranza di miglioramento per il futuro, piattaforma per offrire una vita migliore ai figli. Il punto è non lasciare ai dinamismi selvaggi di un mercato senza scrupoli l’incontro tra domanda di lavoro povero e offerta immigrata disposta a fornirlo. Servono regole, controlli, istituzioni vigilanti e un’opinione pubblica attenta: capace di battersi sulle questioni di principio, ma anche di civilizzare i rapporti di lavoro di ogni giorno. A partire da quelli domestici, per allargarsi al prezzo di frutta e verdura, o dei lavori di manutenzione e ristrutturazione delle abitazioni.

Come esorta il Papa, occorre denunciare i meccanismi di morte e le strutture di peccato. Ma siamo chiamati anche a rinunciare ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, danneggiano la dignità di tanti nostri fratelli e sorelle: «per testimoniare che un’economia diversa, a misura d’uomo, è possibile».

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