venerdì 24 agosto 2012
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​Da diversi anni e di nuovo un paio di mesi fa, questo giornale, ragionando sui rapporti tra etica, politica e giustizia, segnala che tutte le bufere che periodicamente si sono abbattute sulle nostre istituzioni sono state alimentate dall’incertezza dei confini tra queste diverse sfere. Da un lato, nutrendo aspettative eccessive dal lavoro dei magistrati, che viene così caricato di significati estranei al processo. Dall’altro lato, accusando i magistrati di invadere il campo della politica e di agire perseguendo fini di parte. La vicenda divampata quest’estate dal contrasto tra Quirinale e Procura di Palermo conferma quanto questo punto sia nevralgico per la nostra vita democratica. I fatti sono noti e, tutto sommato, semplici: eseguendo legittimamente intercettazioni telefoniche autorizzate dal gip, il pm di Palermo ha intercettato casualmente alcune conversazioni di stretti collaboratori del Presidente e dello stesso capo dello Stato. Non si discute sul fatto che quelle registrazioni debbano essere distrutte in quanto irrilevanti. Si discute invece su chi (e quando) debba ordinarne la distruzione: se lo stesso pm, immediatamente (considerando quelle registrazioni alla stregua di intercettazioni illecite); oppure il gip, all’udienza che il codice già prevede per vagliare, nel contraddittorio delle parti (e dunque con il deposito degli atti), la rilevanza o meno di qualunque intercettazione.Manca una norma che traduca in termini processuali il principio costituzionale dell’irresponsabilità del Presidente per fatti diversi da quelli di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. Dunque, il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale può essere un’occasione per colmare questo vuoto. Ed è appena il caso di aggiungere che, se quelle conversazioni non fossero finite nelle redazioni dei giornali (anche se non pubblicate), tutta la vicenda avrebbe oggi contorni assai meno drammatici. Ma, sullo sfondo di questa disputa tecnico-giuridica, si staglia, gigantesca, la domanda che l’indagine di Palermo sulla "trattativa" del 1992 pone a ogni amante della democrazia: qual è il limite tra autonomia dell’azione politica e rilevanza penale di una scelta politica? Domanda di fondo, da cui nascono altri interrogativi. In quale momento una decisione politica, ancorché ritenuta sbagliata o addirittura scellerata (come ben può essere giudicata quella di una trattativa con la mafia), deve essere interpretata e letta con le lenti del codice penale? E soprattutto: in che misura devono essere valutate le intenzioni dell’uomo politico che prende queste decisioni, dirette a evitare un male maggiore, anche se tramite contatti spregiudicati e condotte politicamente discutibili? L’aver agito "a fin di bene" – e non con l’intenzione di rafforzare il potere criminale con cui si tratta – è questione irrilevante? Ancora una volta, la storia d’Italia – dal rapimento Moro (con la trattativa allora proposta da alcuni alla luce del sole), al sequestro Cirillo, sino alle più recenti trattative condotte per salvare ostaggi italiani sequestrati all’estero – può aiutarci per meglio capire e discutere con maggiore pacatezza. Senza squilli di tromba che impongano di schierarsi su parti contrapposte. Senza accuse incrociate di "antipolitica" e di "populismo giuridico". Riconoscendo ai magistrati palermitani gli indiscutibili meriti del loro difficile lavoro nel corso degli anni. Ma riconoscendo anche, senza pregiudiziali sospetti, la rivendicazione di autonomia della politica. La decisione della Corte costituzionale può indicarci la strada su cui avviare queste riflessioni.
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