sabato 19 ottobre 2013
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Scoperto, acciuffato, rinchiuso. Accusato di un delitto che merita la galera, e dunque messo in galera, perché non scappi, o non ci riprovi. Chi l’ha messo dentro pensa che sia colpevole, o almeno che sia molto probabile che sia colpevole, e che ne sarà data piena prova al processo. Intanto lo tiene dentro anche se non c’è timore che scappi o ci riprovi, se c’è pericolo che «inquini le prove».Per la Costituzione, è un innocente «fino a condanna definitiva»; in pratica, comincia a patire un castigo esattamente uguale a quello di un reo. Poi viene il processo, si tirano le fila; e una gran parte dei disgraziati puniti in anticipo, secondo alcune stime addirittura la metà, se ne esce assolta. Uno sbaglio, tutto qui, una tesi senza prova; e scusate tanto.Scusate? Ma la libertà è un bene sommo, in uno Stato di diritto, e il dolore rovesciato su un innocente, a fargli grama la vita, è una tragedia. Certo sono i processi a stabilire se uno è colpevole o innocente, e ci mettono tempo; sono i processi la garanzia che nessuno è carne da galera sol perché è sbattuto in prima pagina, o scritto in nero su un registro; e le accuse debbono essere provate «al di là di ogni ragionevole dubbio», altrimenti cadono. Ma ci vuole tempo. Ci mancherebbe che provassimo stupore perché una sentenza manda assolto l’accusato, vuol dire che il processo ha fatto la sua funzione essenziale di garanzia. Ma c’è voluto tempo, troppo tempo.No, il problema è ancora altro. È la differenza fra certezza e sospetto, fra prova e indizio, fra realismo e teorema. È pur vero che chi fa di mestiere l’inquirente muove i primi passi fiutando le piste, esplorando le congetture, raccogliendo i dati e valutando i riscontri, e ove si disegni una "ipotesi" d’accusa poggiata su solidi argomenti, la formalizza e la sottopone al processo. Ma prima di toccare la libertà bisogna pensarci non una ma dieci volte. Il rischio di «detenzione arbitraria» ci è stato rinfacciato già da anni da un Report del Working Group on Arbitrary Detention dell’Onu, preoccupato dei ritardi processuali; in Italia «la percentuale di detenuti in attesa di giudizio è di gran lunga superiore a quella di altri Stati europei occidentali».Noi la chiamiamo custodia cautelare. Un tempo era meno ipocritamente detta carcerazione preventiva. Le nostre leggi scrivono che per disporre un provvedimento cautelare occorrono «gravi indizi di colpevolezza»; e poi che tra i vari strumenti il carcere costituisce l’extrema ratio, tanto che il giudice deve spiegare perché non ha potuto ricorrere alle altre misure. Eppure la popolazione carceraria in attesa di giudizio finale è quasi il 40 per cento dell’intero; e chi è in custodia cautelare per un’accusa ancora da giudicare (e dunque è presunto innocente) ha lo stesso trattamento dei condannati definitivi. Inammissibile per questi stessi ultimi, inumano e torturante qual è, assurdo e incivile in sovrappiù per i primi.Questi pensieri vengono oggi alla mente, di fronte alla vicenda di un personaggio noto, Silvio Scaglia, assolto in questi giorni dal tribunale di Roma in un processo per riciclaggio di grande risonanza. Assolto dopo aver subito un anno di custodia, fra galera e domiciliari, al suo rientro volontario in Italia a fronteggiare l’infondata accusa; oggi le sue parole rievocano l’incubo, rammentano «tutti gli innocenti che sono in prigione e che non hanno i mezzi che ho io per potermi difendere».Ma come, il primo mezzo di protezione del cittadino non è la Costituzione, la legge, la civiltà? Non sono i giudici? Se ogni uomo è fallibile, buona precauzione contro l’errore è la venerazione della libertà, prima di toccarla. Qualcosa rimanda alla purezza della sapienza, nella cultura e nella coscienza, quando si tocca la libertà dell’uomo. Sapienza, è il nome di un libro che vale tutti i codici, in un solo versetto iniziale: «Amate la giustizia, voi che giudicate la terra»
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