La via del dialogo tra cristiani ed ebrei va protetta
di Ilenya Goss
Il cammino comune oggi sembra dipendere più da considerazioni strategiche, di potere ed economiche. Ma le nuove generazioni devono lavorare insieme

Dal 7 ottobre 2023 chi è impegnato nel dialogo ebraico-cristiano vive una condizione di fatica che non ha fatto che crescere: le difficoltà non derivano soltanto dalla difficilissima situazione vissuta delle comunità ebraiche, dapprima colpite direttamente dai fatti accaduti in Israele e in seguito esposte a un evidente aumento di episodi di ostilità in molti Paesi, compresa l’Italia, ma anche da ripetute dichiarazioni incaute, esposizione di simboli e bandiere da parte di esponenti del mondo cristiano che hanno generato un clima di sospetto e una netta diminuzione di entusiasmo e di convinzione nel coinvolgersi nel dialogo.
Le scelte politiche e militari di Israele in risposta al rifiuto di Hamas di procedere a trattative di pace, al rilascio degli ostaggi, a interrompere una modalità di combattimento che prevede l’esposizione dei civili a sofferenze terribili, la manipolazione della comunicazione e il mancato controllo delle notizie provenienti da Gaza hanno generato un clima di tensione in cui il piano umanitario, quello politico e quello religioso si confondono tragicamente. La complessità della situazione e i suoi risvolti internazionali sfuggono al dibattito medio, occupato da piazze completamente dominate da rivendicazioni violente e da un paradossale parlar di pace accompagnato da intensità di odio di cui occorre non sottovalutare la portata.
La manipolazione del sentimento diffuso è facilitata da un modello comunicativo basato sull’emozione e gli effetti sono evidenti nel riemergere, anche in ambienti dove sembrava superato, di un astio antiebraico, talvolta un antisemitismo vero e proprio con richiami storici espliciti. Spesso è un ritorno di note narrazioni antigiudaiche: il Dio del Tanak, la Bibbia ebraica che costituisce l’Antico (o Primo) Testamento dei cristiani, viene contrapposto al Dio insegnato da Gesù di Nazareth e si fa strada la pretesa di separare un Ebraismo “buono” da uno “cattivo” in quanto connesso con l’idea di popolo e storicamente legato al sionismo.
Tutto questo, a sessanta anni dalla Dicharazione Nostra Aetate che in ambito cattolico inaugurava dopo il Concilio una stagione di apertura e dialogo con le comunità ebraiche, ha raffreddato le relazioni e ha manifestato una distanza, reso esplicita una incomprensione di cui occorre assumere la responsabilità. Nel suo articolo del 21 luglio l’arcivescovo Bruno Forte pone alcune domande che richiedono urgentemente risposta, non solo da parte del mondo cattolico, ma coinvolgendo tutti i cristiani impegnati nel dialogo: se la teologia biblica e i risultati della ricerca storica sono ormai condivisi nelle diverse denominazioni, purtroppo non è ancora diffuso un sentire che veda la relazione tra ebrei e cristiani come priorità. Bruno Forte afferma che «Israele e Chiesa non possono essere in alcun modo confusi», e che «non è meno evidente alla fede cristiana che sono inseparabili»: non confonderli significa ribadire, se ancora fosse necessario, che la teologia sostituzionista non è stata soltanto un errore, ma un tradimento vero e proprio del messaggio e della chiamata alla fede che costituisce la ragion d’essere della Chiesa.
Bruno Forte sottolinea che l’inseparabilità è evidente dal lato cristiano: soltanto la più avanzata consapevolezza di alcuni protagonisti del dialogo da entrambe le parti comincia negli ultimi anni a portare il frutto del guardarsi reciprocamente come due vie, distinte da precise scelte avvenute nel I secolo e.v., che derivano direttamente la loro linfa dall’esperienza spirituale, culturale e storica dell’Israele biblico, condizionandosi reciprocamente nel tempo della polemica originaria e diventando ciò che oggi conosciamo come Ebraismo e Cristianesimo. Le forze vive impegnate nel dialogo oggi sono sottoposte ad attacchi e incomprensioni da parte di coloro, e sono maggioranza da entrambe le parti, che preferiscono tornare a schemi distruttivi di contrapposizione, modelli che consentono in definitiva di sentirsi “dal lato migliore”.
La situazione politica e militare è troppo complessa per analizzarla qui e personalmente mi mancano dati e competenze specifiche per farlo, ma certamente se i cristiani possono costituire un elemento di mediazione occorre prendere con molta decisione una via diversa da quella percorsa fino a oggi. Non basta alzare la voce inorriditi perché è stata colpita la parrocchia di Gaza: in diversi Paesi oggi i cristiani sono oggetto di violenta persecuzione e stragi da parte di organizzazioni che progettano l’islamizzazione della popolazione e non tollerano la presenza cristiana, senza che ne venga fatto lamento mediatico alcuno. Anche nello stesso settore geografico altre situazioni oltre quella di Gaza dovrebbero far pensare: le notizie su quanto accade alla minoranza drusa chiedono la stessa attenzione. È evidente la presenza di un interesse particolare nel conflitto in Erez Israel, la Terra Santa per i cattolici, che porta in primo piano alcune notizie a scapito di altre.
Riconoscere il diritto di Israele non significa negare diritti alla presenza araba, ma occorre affermare chiaramente che se organizzazioni terroristiche come Hamas hanno il sostegno di queste popolazioni diventa impossibile giungere ad accordi di pace. Il cammino comune, la costruzione della pace, sembra oggi dipendere più da considerazioni strategiche, di potere ed economiche, ma se le religioni hanno una parte da svolgere occorre rendersi conto che il rapporto tra ebrei e cristiani porta la cicatrice di secoli di violenza; se grazie al dialogo le generazioni nuove cominciano a comprendersi e a lavorare insieme, non possiamo permettere che forze distruttive spingano indietro gli esploratori che camminano in avanguardia. Che ci sia dato di vivere almeno l’albeggiare di un tempo di vicinanza e di amore, nel riconoscimento pieno delle identità in relazione, nel coraggio di fare la propria parte anche teologica nel riformulare i tratti della propria postura nel mondo.
Le scelte politiche e militari di Israele in risposta al rifiuto di Hamas di procedere a trattative di pace, al rilascio degli ostaggi, a interrompere una modalità di combattimento che prevede l’esposizione dei civili a sofferenze terribili, la manipolazione della comunicazione e il mancato controllo delle notizie provenienti da Gaza hanno generato un clima di tensione in cui il piano umanitario, quello politico e quello religioso si confondono tragicamente. La complessità della situazione e i suoi risvolti internazionali sfuggono al dibattito medio, occupato da piazze completamente dominate da rivendicazioni violente e da un paradossale parlar di pace accompagnato da intensità di odio di cui occorre non sottovalutare la portata.
La manipolazione del sentimento diffuso è facilitata da un modello comunicativo basato sull’emozione e gli effetti sono evidenti nel riemergere, anche in ambienti dove sembrava superato, di un astio antiebraico, talvolta un antisemitismo vero e proprio con richiami storici espliciti. Spesso è un ritorno di note narrazioni antigiudaiche: il Dio del Tanak, la Bibbia ebraica che costituisce l’Antico (o Primo) Testamento dei cristiani, viene contrapposto al Dio insegnato da Gesù di Nazareth e si fa strada la pretesa di separare un Ebraismo “buono” da uno “cattivo” in quanto connesso con l’idea di popolo e storicamente legato al sionismo.
Tutto questo, a sessanta anni dalla Dicharazione Nostra Aetate che in ambito cattolico inaugurava dopo il Concilio una stagione di apertura e dialogo con le comunità ebraiche, ha raffreddato le relazioni e ha manifestato una distanza, reso esplicita una incomprensione di cui occorre assumere la responsabilità. Nel suo articolo del 21 luglio l’arcivescovo Bruno Forte pone alcune domande che richiedono urgentemente risposta, non solo da parte del mondo cattolico, ma coinvolgendo tutti i cristiani impegnati nel dialogo: se la teologia biblica e i risultati della ricerca storica sono ormai condivisi nelle diverse denominazioni, purtroppo non è ancora diffuso un sentire che veda la relazione tra ebrei e cristiani come priorità. Bruno Forte afferma che «Israele e Chiesa non possono essere in alcun modo confusi», e che «non è meno evidente alla fede cristiana che sono inseparabili»: non confonderli significa ribadire, se ancora fosse necessario, che la teologia sostituzionista non è stata soltanto un errore, ma un tradimento vero e proprio del messaggio e della chiamata alla fede che costituisce la ragion d’essere della Chiesa.
Bruno Forte sottolinea che l’inseparabilità è evidente dal lato cristiano: soltanto la più avanzata consapevolezza di alcuni protagonisti del dialogo da entrambe le parti comincia negli ultimi anni a portare il frutto del guardarsi reciprocamente come due vie, distinte da precise scelte avvenute nel I secolo e.v., che derivano direttamente la loro linfa dall’esperienza spirituale, culturale e storica dell’Israele biblico, condizionandosi reciprocamente nel tempo della polemica originaria e diventando ciò che oggi conosciamo come Ebraismo e Cristianesimo. Le forze vive impegnate nel dialogo oggi sono sottoposte ad attacchi e incomprensioni da parte di coloro, e sono maggioranza da entrambe le parti, che preferiscono tornare a schemi distruttivi di contrapposizione, modelli che consentono in definitiva di sentirsi “dal lato migliore”.
La situazione politica e militare è troppo complessa per analizzarla qui e personalmente mi mancano dati e competenze specifiche per farlo, ma certamente se i cristiani possono costituire un elemento di mediazione occorre prendere con molta decisione una via diversa da quella percorsa fino a oggi. Non basta alzare la voce inorriditi perché è stata colpita la parrocchia di Gaza: in diversi Paesi oggi i cristiani sono oggetto di violenta persecuzione e stragi da parte di organizzazioni che progettano l’islamizzazione della popolazione e non tollerano la presenza cristiana, senza che ne venga fatto lamento mediatico alcuno. Anche nello stesso settore geografico altre situazioni oltre quella di Gaza dovrebbero far pensare: le notizie su quanto accade alla minoranza drusa chiedono la stessa attenzione. È evidente la presenza di un interesse particolare nel conflitto in Erez Israel, la Terra Santa per i cattolici, che porta in primo piano alcune notizie a scapito di altre.
Riconoscere il diritto di Israele non significa negare diritti alla presenza araba, ma occorre affermare chiaramente che se organizzazioni terroristiche come Hamas hanno il sostegno di queste popolazioni diventa impossibile giungere ad accordi di pace. Il cammino comune, la costruzione della pace, sembra oggi dipendere più da considerazioni strategiche, di potere ed economiche, ma se le religioni hanno una parte da svolgere occorre rendersi conto che il rapporto tra ebrei e cristiani porta la cicatrice di secoli di violenza; se grazie al dialogo le generazioni nuove cominciano a comprendersi e a lavorare insieme, non possiamo permettere che forze distruttive spingano indietro gli esploratori che camminano in avanguardia. Che ci sia dato di vivere almeno l’albeggiare di un tempo di vicinanza e di amore, nel riconoscimento pieno delle identità in relazione, nel coraggio di fare la propria parte anche teologica nel riformulare i tratti della propria postura nel mondo.
Pastora e teologa valdese
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