
Un abbraccio tra Ciro, il protagonista di questo articolo, e frate Beppe - Paolucci
«Guardale. L’ho fatto per loro, perché possano avere un futuro diverso dal mio passato, un passato di cui mi vergogno e che non riesco a perdonarmi, ma che non è più il mio presente». È la potenza inimmaginabile e rigeneratrice dell’amore. Ciro conserva nel portafogli la fotografia delle figlie Anita e Daniela: sono loro che l’hanno convinto ad abbandonare la carriera di boss della camorra e a dare una svolta decisiva alla sua esistenza. Non con le parole, ma per il fatto stesso di esserci, perché gli ricordavano cosa conta davvero nella vita.
Una vita che sembrava ineluttabilmente scritta fin dalla prima infanzia: la morte della madre quando aveva solo sei anni, il padre plenipotenziario dello spaccio di droga in una città della Campania, la loro casa divenuta il crocevia del commercio di cocaina nel quartiere, un porto di mare dove i clienti entravano a ogni ora del giorno e della notte, con il piccolo Ciro che assisteva smarrito al traffico di morte che passava davanti ai suoi occhi. «Certe sere non riuscivo a prendere sonno, la mattina entravo in classe e mi addormentavo sul banco, ma mio padre voleva che frequentassi la scuola per evitare che l’assistente sociale venisse a casa nostra e si rendesse conto di quello che accadeva». Quando compie dieci anni viene arruolato per dare una mano nel commercio domestico di cocaina: «Spacciare era diventato il mio lavoro, studiavo poco e male, il diploma di terza media me l’hanno proprio regalato, e quando gli insegnanti mi chiedevano se volevo continuare a studiare o andare a lavorare, io rispondevo che un lavoro già l’avevo…».
Ha sedici anni quando il padre viene arrestato per la prima volta, ma la sua giovane età non può essere un’obiezione all’obbligo di sostituirlo al comando dell’azienda di famiglia per continuare a gestire il controllo dello spaccio nella zona. Così giovane e già sprofondato nell’abisso del male, con il cuore di marmo e il cervello obnubilato dalla sete di potere. « Avevo tutto: la barca al mare, un macchinone potente che guidavo senza avere la patente, quindici persone ai miei ordini per gestire il commercio di cocaina, la pistola in tasca per fare giustizia a modo mio. A volte partecipavo a una rapina non perché avessi bisogno di soldi, ma per il gusto di vivere una nuova avventura e sentire l’adrenalina che cresceva nel corpo. La mia normalità era una vita esagerata. Quando mio padre è stato condannato all’ergastolo sono diventato il comandante a tutti gli effetti, mi muovevo con baldanzosa sicurezza in un contesto criminale troppo grande per un giovane di vent’anni, dentro una guerra tra clan dove la vita del nemico non valeva nulla».
Viene arrestato, dopo tre anni esce di galera, il conflitto tra bande ricomincia più virulento di prima, Ciro diventa mandante o esecutore di missioni che si concludono nel sangue. Dal rapporto con la moglie Elisabetta erano nate Daniela e poi Anita, una bimba con gravi disabilità. « Non potevo sopportare di vederla in quello stato, stava male e io volevo fare del male agli altri, come fosse una vendetta personale per la sofferenza che Anita era costretta a provare sul suo corpo. Quando sparavo provavo soddisfazione, una sorta di liberazione. Ti sembra pazzesco, vero? Ma devi credermi, vivevo questa vertigine. Era come un veleno che scorreva nelle vene: ogni volta ero consapevole che andavo incontro alla morte, ma la morte non mi faceva paura. Lo so, è difficile capirlo per chi guarda da fuori, ma per me era diverso: ero cresciuto in un contesto criminale, e tutta la mia persona si era immedesimata nella mentalità di quel contesto. Il male era la mia bussola».
Arriva un nuovo arresto, ma stavolta la condanna è molto pesante: trent’anni. Trascorre i primi mesi in carcere tormentato da rabbia e sconforto, toccando con mano l’abisso del male compiuto e delle sofferenze procurate ai suoi cari e alle vittime dei reati commessi, poi nella mente si inanellano una serie di considerazioni: prende coscienza di quello che ha combinato, le condizioni della piccola Anita peggiorano e l’unico sentimento che domina è la disperazione. « Passavo le giornate in cella a rimuginare sul passato, quando prendevo tra le mani la foto delle figlie mi rendevo conto che insieme alla mia avevo rovinato anche le loro esistenze e quella di mia moglie. Una domanda su tutte mi tormentava: quale futuro avranno queste povere creature, cresciute come il padre in un contesto malsano?»
È proprio mentre matura queste riflessioni che nel carcere di Alessandria incontra frate Beppe, un francescano che svolge le funzioni di cappellano nella sezione dei collaboratori di giustizia. «Con lui facevo lunghi dialoghi in cella, ascoltava i miei sfoghi e le mie domande, nella confessione parlava di un Dio che si china sulle ferite, misericordioso e sempre disposto al perdono, così diverso dall’immagine appannata di un Dio lontano che conservavo dalla mia infanzia. Negli incontri con lui si è accesa una luce di speranza, il cuore indurito dal male si è andato sciogliendo, l’amore per le mie figlie è diventato la molla del cambiamento. Ma come potevo dare solidità al desiderio di una vita nuova? E’ stato in quel tempo che ho maturato la decisione di dare un taglio netto al mio passato criminale e di iniziare a collaborare con la giustizia. Una decisione che è arrivata pensando anzitutto al bene di Daniela e Anita, e perché lo giudicavo un contributo utile ad arginare la diffusione del male di cui ero stato per troppo tempo complice e protagonista».
I magistrati predispongono un programma di protezione per Ciro al fine di metterlo al sicuro dalle prevedibili ritorsioni da parte della camorra, inizia un periodo di sei mesi di isolamento totale («e in quei centottanta giorni sai quanto mi angosciava il pensiero di non avere notizie delle mie figlie»), poi nel 2018 arriva la detenzione domiciliare nella città del Nord Italia dove l’ho incontrato, seguono i tentativi di trovare lavoro e infine, grazie all’aiuto di frate Beppe, un’occupazione come magazziniere.
Oggi a 52 anni vive ancora sotto protezione, al riparo da una camorra che – lui lo sa bene – non dimentica e non perdona. La moglie è fiera della sua decisione, dedica quasi tutto il tempo ad Anita, ormai adolescente. Una ragazza che non parla, non cammina, soffre di crisi epilettiche e viene alimentata con la peg, «ma ha tutto il nostro affetto ed è diventata insieme a sua sorella la ragione della mia vita». Daniela frequenta il liceo, ha provato sulla sua pelle cosa significa che le colpe dei padri ricadono sui figli: il suo ragazzo ha scoperto su Internet il passato di Ciro e, anziché compiacersi per la scelta coraggiosa che aveva fatto collaborando con la giustizia, l’ha lasciata. « È il prezzo che ha dovuto pagare per la mia decisione, ma lei è fiera delle scelte di suo padre. Anche mia moglie mi ha incoraggiato in questa scelta: ora alla sera ci addormentiamo sereni nel nostro letto, è lontano il ricordo di quella volta che i carabinieri vennero ad arrestarmi nel cuore della notte per portarmi in galera. Il passato continua a pesare, ma una vita nuova è cominciata».
(13 - continua)