Perché con l'attentato a Gerusalemme cresce il rischio di una guerra totale
Nelle ultime ore sembrava rimanere aperto uno spiraglio nella trattativa verso il cessate il fuoco e la liberazione dei cittadini israeliani ancora in ostaggio. L’attentato induce adesso al pessimismo

Attacchi, sangue e morte. Sul piccolo perimetro che racchiude Israele e i territori palestinesi – non più esteso di Lombardia e Liguria accostate –, eppure anche simbolicamente uno dei centri del mondo, si avvita sempre più un tornado di violenza e di odio che rende sgomenti. Non vogliamo dire che lascia senza parole, perché più che mai c’è bisogno di dare voce a un tentativo di disarmare le mani, i cuori e le menti. La feroce strage di ieri mattina a una fermata dell’autobus di Gerusalemme (almeno sei vittime israeliane e numerosi feriti) non farà che rinfocolare i rancori e lo scontro. Eppure, sia i singoli attentatori sia Hamas e la Jihad (che hanno inneggiato all’azione) non paiono vedere altre modalità, nella tragedia di Gaza, se non sparare ancora una volta nel mucchio su civili inermi (magari qualcuno di loro partecipava alle proteste anti-Netanyahu…). Non solo un crimine inescusabile, ma pure una logica incomprensibile e senza sbocco. La condanna è totale e senza eccezioni. In Occidente, dove per essere credibili nelle critiche alla terra bruciata che Israele sta facendo nella Striscia non si può mostrare alcun margine di ambiguità. Nel mondo arabo-islamico, in cui si vuole evitare che l’escalation infiammi anche la Città Santa e una destabilizzazione strisciante varchi i confini degli Stati vicini.
L’Autorità nazionale palestinese si dissocia recisamente. L’effetto più immediato sarà un’ulteriore stretta sulla Cisgiordania, da cui provenivano i due terroristi, con probabili arresti di massa, espulsioni e distruzione di abitazioni di familiari e presunti complici, come è avvenuto spesso in passato. In questo frangente, con progetti di nuove colonie e annessioni annunciate dall’estrema destra israeliana, le conseguenze rischiano di essere persino peggiori. Di fronte a tutto ciò, è difficile trattenere il sospetto che siano all’opera fazioni palestinesi ostili per principio a qualunque accordo e ostinatamente determinate al muro contro muro. Una logica che trova alimento nella sproporzionata reazione messa in atto da Tel Aviv dopo il pogrom del 7 ottobre 2023. Oltre 700 giorni di guerra hanno fatto a Gaza quasi 65mila morti (solo il 17% miliziani, secondo l’inchiesta non ancora smentita della testata israeliana +972) e sempre più frequentemente si parla di un’evacuazione più o meno forzata degli abitanti e di un progetto di occupazione con risvolti commerciali e turistici. Nelle ultime ore, sembrava rimanere aperto uno spiraglio nell’accidentata trattativa verso il cessate il fuoco e la liberazione dei cittadini israeliani ancora tenuti in ostaggio dal movimento fondamentalista. L’attentato induce adesso al pessimismo. E di nuovo si stenta a trovare una spiegazione alla tempistica scelta, quando il presidente americano era tornato a spingere per un accordo e il tempo sta scadendo per dare rifugio al milione di abitanti di Gaza City che sono sotto i bombardamenti. Un sabotaggio in nome del “tanto peggio tanto meglio”? Vengono in mente i cinici messaggi di Yahya Sinwar, capo di Hamas della Striscia, accusato di crimini di guerra dalla Corte penale internazionale e poi ucciso, secondo il quale i massacri di civili palestinesi erano “sacrifici necessari” che “infondono vita nelle vene della nazione”. Questo volto di un nemico senza pietà può indurre l’idea che non vi sia spazio per un reale dialogo, che Israele sia perciò sempre esposto a una minaccia esistenziale e che l’unica soluzione sia l’eliminazione di tutti coloro che aderiscono a tale progetto. Così si alimenta la spirale di diffidenza e inimicizia profonda dalla quale è difficile tornare indietro. E i caduti, prima ancora di essere pianti e commemorati, vengono strumentalizzati: alla notizia dell’attacco, il premier Benjamin Netanyahu ha chiesto di posticipare la sua deposizione al processo per corruzione che lo vede coinvolto.
La guerra perpetua non può essere però il destino della terra cara a tre religioni che predicano pace. Israele di fatto ha vinto militarmente, un 7 ottobre non potrà ripetersi, mentre non c’è modo di evitare al cento per cento singoli episodi. Continuare a uccidere e lasciare morire donne e bambini a Gaza costituisce un crimine in sé e finirà con il costringere Israele a chiudersi in un’armatura certo efficace quale protezione, avendo tuttavia diluito quel capitale di amicizia e sostegno che ne ha fatto un piccolo-grande Paese apprezzato per la sua storia, la sua cultura e la sua democrazia. Oggi più che mai gli estremisti arabi sono avvelenatori del loro stesso popolo: vanno isolati e disarmati. Lo Stato ebraico – che soffre, è lacerato al suo interno e non sa fermare un conflitto devastante – viene chiamato nelle ore più drammatiche a scelte, come l’accettazione di una tregua, che ridiano una speranza alla convivenza e un’occasione per costruire di nuovo insieme ai suoi alleati un futuro più sereno. Un futuro che veda placarsi il tornado di odio e violenza che ora lo sovrasta.
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