sabato 9 aprile 2016
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La ricerca di una mediazione per uscire dallo stallo A ormai più di cento giorni dalle elezioni legislative dello scorso 21 dicembre, la Spagna è ancora senza governo ed è retta da un esecutivo in carica per gli affari correnti, presieduto da Mariano Rajoy. E la soluzione della crisi – ormai la più lunga dall’entrata in vigore della Costituzione del 1978 – appare ancora lontana (malgrado continui tentativi di disgelo tra vecchie e nuove forze politiche), mentre il termine per la convocazione di ulteriori elezioni ha una data ben precisa: se entro il 2 maggio nessun candidato otterrà l’investitura del Congresso, le elezioni anticipate saranno automaticamente convocate per il 26 giugno. Per la Spagna sarebbe il primo caso di early elections, vale a dire di scioglimento della Camera per impossibilità di formare un governo a inizio legislatura: una eventualità sempre possibile nei regimi parlamentari, anche se improbabile. Con in più un’ulteriore incognita: è possibile, infatti, che dalle nuove elezioni esca un Parlamento simile a quello attuale, con la conseguenza che i veti incrociati fra i principali partiti potrebbero permanere. Ma com’è possibile che il sistema parlamentare più stabile d’Europa – divenuto negli ultimi vent’anni quasi l’archetipo del bipartitismo (ancorché imperfetto, per la presenza di varie formazioni locali) – si sia sciolto come neve al sole nelle elezioni di dicembre? E, soprattutto, perché i principali partiti non sono sinora riusciti a trovare una via d’uscita per interpretare le istanze degli elettori, i quali, sia pur in modo confuso, hanno espresso un mandato chiaro, quello in favore di un governo di coalizione? La prima domanda – nella sua dimensione strettamente politica – trova la sua risposta nel sistema elettorale spagnolo: un sistema proporzionale che adotta come circoscrizione elettorale la provincia, senza recupero dei resti a livello nazionale. E siccome la Camera è composta da appena 350 deputati e gran parte delle province elegge da 2 a 6 deputati, in tali circoscrizioni elettorali si produce un netto effetto maggioritario, che privilegia i due principali partiti. Ciò è accaduto anche lo scorso dicembre. Tuttavia questo effetto ha dei limiti: in presenza di un quadro politico frammentato e di un assetto quadripartitico (Pp, Psoe, Podemos e Ciudadanos) non solo nessun partito arriva da sé alla maggioranza, ma – salvo che per una grande coalizione fra i due partiti storici, cioè tra popolari e socialisti – per formare un governo non basta neppure una coalizione a due partiti sul centrodestra o sul centrosinistra. E il sistema è ora diviso, oltre che dal tradizionale cleavage destra-sinistra (fino a ieri, Pp e Psoe, oggi Pp più Ciudadanos versus Psoe più Podemos), anche fra forze vecchie e destinatarie, fra l’altro, di gravi accuse di corruzione (Pp e Psoe), e nuove (Podemos e Ciudadanos) anche se non immacolate come dimostra il caso appena emerso del (presunto) cospicuo finanziamento degli ex indignados di Podemos da parte del Venezuela bolivariano del defunto etno-caudillo Hugo Chávez. Con queste ultime pronte a lanciare la sfida ai partiti tradizionali in ciascuno dei due campi storici: in particolare la sfida di Podemos ai socialisti per l’egemonia a sinistra rende problematica sia una grande coalizione Pp/Psoe, sia un governo stile Fronte Popolare fra Psoe e Podemos stesso. Se a ciò si aggiunge che entrambi i due principali partiti (Pp e Psoe) hanno perso molti voti e hanno leader contestati, sia pure in forme diverse, all’interno della loro stessa casa politica (e se si considera che anche all’interno di Podemos stanno affiorando divisioni fra il leader, Iglesias, più intransigente, e il numero 2, Errejón, più possibilista sul dialogo coi socialisti), si ha un panorama nel quale le considerazioni tattiche sono state sinora prevalenti su quelle strategiche e ciascuno degli attori politici ha scommesso sulle debolezze e sui possibili errori dell’altro, evitando qualsiasi opzione costruttiva. Così Mariano Rajoy si è rifiutato di sottoporsi al voto di investitura parlamentare, malgrado un formale invito del Re, e il leader del Psoe Pedro Sanchez ha tentato di ottenere il via libera parlamentare pur partendo da una base assai fragile – l’accordo 'social-liberale' con Ciudadanos, per un totale di appena 130 seggi su 350 – che infatti si è risolto in un nulla di fatto. Fin qui il lettore italiano non troverà ragioni di stupore: il tatticismo e la scarsa propensione a investimenti 'di sistema' è infatti tratto comune a molti politici delle due penisole latine d’Europa. Ma vi sono almeno due differenze fra Roma e Madrid che emergono chiaramente in questa crisi. In primo luogo la Spagna non ha un potere moderatore capace di funzionare in caso di crisi come lo è stata la Presidenza italiana negli anni di Scalfaro e di Napolitano. Questo ruolo in Spagna spetta al Re, ma il monarca, per ragioni storiche (l’attivismo di Alfonso XIII, che negli anni 30 del XX secolo portò alla caduta della monarchia e poi alla guerra civile), non ha la forza per proporre formule di compromesso (tipo governi Dini o Monti) capaci di superare lo stallo prodotto dalle elezioni. Ma vi è una seconda ragione: la cultura politica spagnola degli ultimi quattro decenni, proprio perché ha prodotto governi stabili ed efficienti, ha sviluppato un approccio iper-maggioritario che considera inaccettabile una grande coalizione destra-sinistra. In dicembre El Pais ha pubblicato un divertente editoriale intitolato «Andreotti, illuminaci!», invocando la capacità di mediazione dei politici italiani della Prima Repubblica. Un Parlamento italiano, se non balcanico, a Madrid, ma senza politici italiani: senza Scalfaro, Napolitano, Andreotti e Berlinguer. E forse anche senza Renzi e Verdini. Sono le delizie del maggioritario.
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