martedì 5 dicembre 2017
La trasformazione può diventare un'opportunità e i timori essere convertiti in speranza. Ai lavoratori di oggi e domani serve una formazione che investa sull'umano
La rivoluzione del lavoro non deve più fare paura
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Trattando del lavoro dell’uomo, sembra quasi di respirarla con l’aria: insicurezza, sfiducia, ma soprattutto una diffusa paura di cambiamenti che sono già in atto e che sicuramente attendono tutti noi. D’altronde sarebbe strano non averne, di paura: quasi ogni giorno vengono proposti scenari catastrofici rispetto al lavoro. Fin dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso si argomenta sulla fine del lavoro e oggi pare proprio che questa fine sia arrivata: la tecnologia eliminerà gran parte dei lavori, oppure forse non proprio la gran parte dei lavori, ma molte parti del lavoro. Insomma qualcosa verrà eliminato e non sono pochi a pensare che ad essere eliminati saranno proprio i lavoratori, basti pensare alle recenti dichiarazioni dei vertici di importanti aziende tedesche in merito a possibili migliaia di esuberi dovuti all’innovazione produttiva. Se consideriamo che la Germania è stata tra le prime economie ad affrontare la grande trasformazione del lavoro legata alla quarta rivoluzione industriale, si tratta di dichiarazioni che comprensibilmente destano preoccupazioni e vanno ad alimentare paure diffuse.

Del resto viviamo in un mondo che ha come cifra propria volatilità, incertezza, complessità e ambiguità, tutte caratteristiche che difficilmente possono contribuire a rasserenare gli animi e a calmare le ansie. La quarta rivoluzione industriale, con i suoi scenari che paiono usciti da opere di fantascienza, non è che un particolare in un più ampio contesto di cambiamento dalle dimensioni epocali (il «cambiamento d’epoca» a cui ci richiama Papa Francesco). Questa dimensione di paura è forse proprio legata a questo cambiamento d’epoca, rispetto al quale la nostra capacità di prevedere, di prefigurare il futuro sembra appannarsi. Del resto, anche gli antichi per indicare le terre incognite, scrivevano sulle loro mappe 'hic sunt leones', i leoni, cioè le belve feroci, l’incognito come nemico, come territorio ostile da cui è opportuno stare alla larga. Tuttavia, nonostante questo avvertimento, ogni epoca ha avuto chi audacemente sfidava l’ignoto. Si trattava di individui animati dal gusto dell’avventura e della conquista, ma talvolta anche da qualcosa d’altro: in questo tempo d’Avvento la memoria va ai Re Magi, di cui ci parla Matteo nel suo Vangelo. I Magi si muovono in terra incognita seguendo una stella, alla ricerca di qualcosa che porti significato nella realtà, è questo che permette loro di affrontare l’ignoto: la certezza di poter trovare risposta alla loro domanda.

Un antidoto alla paura, dunque, risiede nella certezza. Qui però nasce una nuova questione: è ancora possibile oggi, in un tempo di incertezze 'strutturali', provenienti da quella modernità liquida che Zygmunt Bauman ci ha acutamente descritto, avere ragionevoli certezze? Nell’epoca moderna la certezza veniva dalla razionalità, dal lume della ragione, dalla fiducia nella scienza positiva, portatrice di un progresso in cui il sapere umano avrebbe dato contezza di ogni cosa e conseguentemente fugato le ombre della paura dell’ignoto. Poi ci siamo accorti che così non era, quindi cosa può oggi permettere il formarsi di una certezza? In psicologia si usa un termine per indicare il muoversi con certezza di una persona: selfconfidence, cioè una persona che ha fiducia in se stessa e per questa fiducia si muove, fiducia che, in termini psicologici, viene considerata una conseguenza di esperienze positive, di buone relazioni, di una riflessione costruttiva su di sé e sulle proprie capacità. Anche la parola speranza può aiutarci a comprendere questo muoversi intenzionale dell’uomo in terra incognita. La speranza di cui stiamo parlando non è però un sussurro fatalistico ('sperem!'), premessa del rassegnarsi al fatto che le cose non vadano a buon fine. È piuttosto la speranza che «non delude» di cui parla Paolo (Rm, 5,5), che porta ad agire con confidenza anche nel cambiamento e che, quindi, ci permette di non avere paura del cambiamento stesso. È questa 'non paura' che ci fa vedere il cambiamento, la trasformazione come opportunità. I latini la chiamavano opportunitas, i greci kayros ed era uno degli appellativi del tempo: la possibilità che l’incontro con un imprevisto potesse generare un cambiamento positivo, ancorché inatteso. a verità è che nessuno, oggi, sa come andrà a finire. Della grande trasformazione del lavoro (ma potremmo dire anche dell’economia o della società) è possibile solo cogliere alcuni segni, molti di questi preoccupanti, ma non pochi entusiasmanti. La scelta positiva in questo cambiamento d’epoca è quella che hanno indicato i Magi, che avendo visto i segni si sono messi in movimento. Da questa riflessione possiamo ricavare due conseguenze. La prima è che è indispensabile cercare di cogliere i segni dei tempi. Di fronte all’incertezza e alla paura la tentazione diffusa è quella di fare come lo struzzo, seppellendo la testa nella sabbia: «ciò che non vedo, non c’è!», ma questo non paga mai. La seconda conseguenza è che non è possibile usare sempre vecchie soluzioni per nuovi problemi. Questo, in particolare, mi pare sia uno dei grandi limiti delle politiche con cui si cerca di accompagnare la grande trasformazione: sono vecchie e – anche per questo – non funzionano. È necessario avere il coraggio di muoversi. Innanzitutto in prima persona, poi chiedendo un cambiamento di passo a chi ci governa, senza indulgere a tentazioni conservatrici: per non soccombere alla quarta rivoluzione industriale ne occorre una quinta, che riguardi l’educazione dell’umano.

Per quanto riguarda il cambiamento del e nel lavoro è indubbio che questa rivoluzione chieda soprattutto nuove risorse in termini di formazione ed accompagnamento dei lavoratori di oggi e di domani. Proprio dal guardare ai segni dei tempi è possibile individuare tre direttrici lungo le quali il sistema della education deve al più presto muoversi. La prima è quella delle competenze digitali. In fondo è la più semplice, ben esplorata e con molte risorse disponibili. La seconda è quella delle cosiddette competenze non cognitive, che sappiamo essere centrali nello sviluppo dell’employability di giovani e meno giovani: flessibilità, apprendimento, organizzazione, lavorare in gruppo, problem solving e decision making, solo per citarne alcune. La loro rilevanza è ormai ben nota, tuttavia l’impegno educativo a svilupparle è ancora troppo limitato. Infine, c’è una competenza cruciale che si accompagna alle prime due, nella cultura anglosassone è presente un termine molto suggestivo per definirla: empowerment. Si tratta del sapersi aprire nuove possibilità tra cui scegliere e muoversi.

L'accompagnare i lavoratori di oggi e di domani (quelli che oggi studiano) nel loro necessario percorso di cambiamento è certamente un bell’aiuto di fronte alla paura diffusa: nel momento che stiamo attraversando non è possibile lasciare sole persone, gruppi, comunità. Anche per questo va riscoperto e sostenuto il ruolo giocato dai corpi sociali intermedi, sindacato compreso, a cui va da un lato riconosciuto il tentativo di cambiamento in atto, ma che dall’altro va spronato ad una maggiore decisione a riguardo. Prima di tutto però c’è la persona: io, noi. Proviamo quindi a fare nostro l’esempio dei Magi, che con il loro pellegrinare verso chi costituisce il senso della realtà, ci mostrano la reale alternativa ad una vita schiava di paure che ci rendono impotenti di fronte al cambiamento.

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