La violenza degli uomini sulle donne è un fenomeno strutturale», ha detto una donna che ieri, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, stava partecipando, a Roma, a una grande manifestazione di denuncia. Lo è perché molte culture e civiltà si sono formate sulla sottomissione delle donne agli uomini, sulla dipendenza delle femmine dai maschi, sulla mancanza di una pari dignità delle une rispetto agli altri. Le società androcentriche hanno sempre avuto bisogno del supporto di un femminile disposto al loro riconoscimento e alla loro affermazione; ancor più, si son potute consolidare proprio sui ruoli di dipendenza svolti dalle donne, sulla forzata docilità di queste ultime persino nel fare a meno dei diritti civili e umani.
La ventennale attesa di Penelope, ma anche la gara delle matriarche bibliche per dare discendenza ai loro mariti, sono solo esempi arcinoti della condizione delle donne in un tipo di società in cui gli uomini erano i prìncipi e "il principio", i capi e i patriarchi.
Anche i codici di leggi dei diversi popoli che sono all’origine della storia occidentale contemplavano, in certi casi, la violenza vera e propria sulla donna; basti pensare alla lapidazione dell’adultera – fortemente criticata da Gesù, nel Vangelo di Giovanni – o a quella della sposa che non fosse trovata vergine da suo marito, la prima notte, per citare soltanto la Torah di Mosè. I ratti collettivi delle donne sono costanti in molti mondi del Mediterraneo: i greci rapirono le troiane, i romani le sabine, gli ebrei, figli di Beniamino, le danzatrici di Silo.
Ma, seppur dentro un orizzonte a dir poco maschilista, v’era anche orrore per la violenza estrema sul corpo della donna. C’è una pagina del libro dei Giudici che si accosta alle scene oscene che vediamo quasi ogni giorno in televisione, o di cui leggiamo la cronaca sui giornali: quella della concubina del levita che fu violentata per una notte intera, dagli uomini della città che la ospitava, fino a farla morire. Il suo stesso marito, poi, tagliò il suo cadavere in dodici pezzi e li mandò alle dodici tribù d’Israele, con questo agghiacciante quesito: «È forse mai accaduta una cosa simile?» (Giudici 19,30). Proprio ciò che affiora alle nostre labbra dinanzi alla strage mostruosa delle donne: "Com’è possibile tanto?", ci chiediamo.
La cultura occidentale attuale non è più androcentrica, né, tantomeno, patriarcale. I padri non sono più proprietari dei figli, anzi, spesso, sono latitanti dalle loro famiglie; i mariti non sono più proprietari delle mogli e i diritti coniugali degli uomini sono pressoché identici a quelli delle donne, almeno sulla carta. Cosa sta accadendo, allora?
Da cosa nasce tanta violenza, tanta inumanità, tanto odio verso le donne e, nella fattispecie, verso le madri dei propri figli e quelle che sono state o sono ancora le proprie mogli? Cosa c’è di nuovo nella frattura del patto tra mariti e mogli, tra l’uomo e la donna? Non basta appellarsi al fatto strutturale, alla storia del passato, alle colpe delle tradizioni o delle religioni, quando hanno appoggiato o propugnato il maschilismo.
Ci sono le parole di Gesù nel Vangelo in cui viene divelto qualsiasi possibile androcentrismo o maschilismo nel matrimonio, poiché egli dice: «L’uomo si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola» (Matteo 19,5), ponendo in perfetta reciprocità marito e moglie; gli fa eco uno scritto paolino che afferma: «Voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo amò la Chiesa e consegnò ad essa se stesso», e ancora: «Chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura» (Efesini 5,25.29). Dunque più di duemila anni fa le 'strutture' su cui potesse attecchire la violenza sulle donne erano state decisamente divelte dal cristianesimo nascente, e per volontà divina. Cos’è successo poi? Perché queste parole sono state sepolte? Com’è possibile che dopo tanto cammino morale, politico, psicologico e spirituale che l’Occidente ha fatto si debba ripresentare la 'bestia' assetata del sangue della propria carne? Da quali arroganti pretese, da quali smarrimenti, da quale inedita malvagità, da quale debolezza, da quale vuoto, da quali ignote disperazioni, da quali orfanità, da quali insostenibili solitudini, da quali eclissi dell’anima, da quale paura nascono i nuovi assassini, i nemici del loro stesso amore, del loro stesso letto, delle loro stesse viscere, della loro stessa vita? Nessuno di noi può sfuggire al morso della domanda. Tanto più le donne, tanto più la Chiesa che, come ha detto di recente papa Francesco, «è donna».
A tutti noi è stato inviato quel brandello di carne livida e violata che il levìta mandò a Israele. Davanti agli occhi di tutti noi sta la polla di sangue vitale che l’odio ha fatto diventare impuro. Il volto ceduto di Abele nelle braccia di tutte le donne uccise. La terra ne reclama la sorgente. A noi spetta conoscere e incontrare chi le ha uccise. A noi l’urgenza di demolire quei «fenomeni strutturali» che alle porte delle nostre case, sulle vie delle nostre città, e anche – ahimé – nelle stanze recondite della Chiesa, potrebbero ancora alimentare le dis-parità, le di- visioni, il dis-prezzo degli uomini verso le donne, cerini sempre pronti ad accendere fuochi di possibili, visibili, o mascherate e mostruose violenze. Occorre riconciliarsi, costruire patti di stima vicendevole, d’amore, di libertà, di reciprocità. Ce lo impongono i volti atterriti dei figli e le loro grida.