martedì 26 giugno 2018
Il caso delle 580mila persone che si sono rivolte ai 1.800 enti caritativi capaci di far fronte a esigenze sanitarie e farmaceutiche
La nostra sanità non ce la fa senza l'aiuto del Terzo settore
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Il 2018 è anno di ricorrenze importanti. Per chi si occupa di welfare il rimando più immediato è ai quarant’anni del nostro Sistema Sanitario Nazionale, che fu istituito con la legge 833 votata dal Parlamento il 23 dicembre 1978. Una scelta che dava finalmente attuazione all’articolo 32 della Costituzione (della cui entrata in vigore festeggiamo quest’anno il settantesimo anniversario), in cui si legge: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E per gli amanti del genere non è banale ricordare anche che giusto trent’anni prima, il 5 luglio 1948, mosse i primi passi il National Health Service britannico, ovvero il punto di origine dei sistemi sanitari universalistici (gratuiti e per tutti) sorto sulla scorta delle indicazioni contenute dal famoso Rapporto Social Insurance and Allied Services curato da sir William Beveridge (economista e politico liberale) nel 1942.

Proprio grazie a queste ricorrenze storiche l’anno in corso si presta benissimo per interrogarsi sullo stato di “salute” dei sistemi di welfare nel loro complesso e in particolare su quello del sistema sanitario, che come noto si presenta sempre più come uno degli snodi critici più acuti dovendo coniugare bisogni crescenti di una popolazione che invecchia e necessità di contenimento della spesa pubblica. La riforma dei sistemi sanitari non può certamente essere considerata esclusivamente in un’ottica economica e politica. Essa va interpretata anche alla luce degli scopi stessi della medicina, soprattutto in un contesto di forte innovazione tecnologica a sostegno dei meccanismi di diagnosi e di cura. E, tuttavia, le questioni teoriche circa i problemi e le finalità della medicina nascono proprio da spinte tanto delle politiche sanitarie quanto dall'organizzazione dei sistemi socio-sanitari che erogano servizi. In buona sostanza, nelle attuali società liberal-democratiche, con i pesanti vincoli di finanza pubblica, è ancora possibile fornire beni e servizi “a tutti” sulla base dei diritti di cittadinanza, così come sono stati organizzati fino ai nostri giorni, a partire dal secondo dopoguerra del secolo scorso, i Paesi sviluppati attraverso una logica universalistica incondizionata?

In sanità, far emergere la questione relativa alla distribuzione di risorse scarse ripropone vecchi e nuovi interrogativi circa le pretese legittime (il diritto alla salute inteso in senso lato) da parte dei cittadini delle società liberal-democratiche (che sono liberi di adottare stili di vita diversi) e le priorità che i decisori pubblici ritengono di assegnare a tali pretese. Siamo, cioè, di fronte a questioni socio-politiche ed etiche che si (ri)presentano nel difficile rapporto esistente tra cittadini e istituzioni pubbliche preposte ad assegnare costi e benefici ai membri stessi della collettività. In altre parole, poiché la sfida di fondo consiste proprio nel ripensamento dei sistemi di welfare – alla luce della crisi più che ventennali dei modelli universalistici – studiosi, decisori pubblici e gli stessi utenti da tempo pongono all’attenzione una serie di problemi, che qui possiamo soltanto sintetizzare. La sfida dei governi negli attuali regimi liberaldemocratici si gioca sulla possibilità di salvaguardare congiuntamente autonomia individuale e sanità pubblica, esaltare la fiducia in sé e la responsabilità individuale con le virtù pubbliche quali la cooperazione e la giustizia sociale. Ma è ancora sostenibile oggi l’equilibrio “accomodante” tra libertà individuale e costi sociali? In effetti, gli attuali assetti di welfare di tutti i Paesi sviluppati delle democrazie occidentali sono alle prese con tali sfide, al punto da mettere in discussione la garanzia della massima libertà dei membri della collettività senza che essi ne paghino in qualche modo il prezzo. E proprio tali questioni etico-sociali ci introducono a considerare le sfide alla cittadinanza sanitaria incondizionata nell'ambito delle politiche sanitarie.

Probabilmente il tema principale è legato alla sostenibilità di un accesso indiscriminato ai servizi sanitari a prescindere dal livello di reddito, dai tipi di patologie, dall’età del paziente, dalla qualità della vita residua, dai benefici attesi e, da ultimo ma non meno importante, dagli stili di vita individuali. A questo problema si associa direttamente quello dei Lea (Livelli Essenziali di Assistenza), rispetto ai quali ci si domanda se debbano essere garantiti a tutti gli individui oppure soltanto a quelli maggiormente svantaggiati in termini economici. E ancora, numerose ricerche hanno posto il problema degli effetti redistributivi che il nostro sistema fiscale e contributivo determina, mettendo in dubbio che tale effetto vada veramente a beneficio dei ceti sociali più svantaggiati. Più in generale, se è vero che l’idea soggiacente ai sistemi di welfare sanitario è rivolta alla protezione della salute individuale da interferenze esterne (tutela della libertà negativa) anche qualora il rischio per la salute dipendesse da comportamenti azzardati, è altrettanto vero che contemporaneamente la società deve difendere i suoi membri da abusi della libertà. Nei diversi ambiti di vita, si verificano tensioni, a volte anche conflitti, tra diritti, preferenze individuali e l’interesse generale o bene collettivo che le politiche pubbliche sanitarie intendono realizzare (si veda l’art. 32 della Costituzione). Vale a dire conciliare, nella misura del possibile, i diritti e gli interessi presi separatamente e il bene degli individui considerati nel loro insieme.

Problemi complessi e di straordinaria rilevanza in termini sociali e politici, che rischiano di essere messi in secondo piano là dove la discussione pubblica si concentra in modo unilaterale sul tema della mera sostenibilità economico-finanziaria. Non è forse un caso che il tema dell’accesso alle cure per la popolazione in condizione di “povertà sanitaria” (parte forse piccola ma non irrilevante della popolazione) sia nascosto in un cono d’ombra. I dati presentati pochi mesi fa dall’Osservatorio Donazione Farmaci della Fondazione Banco Farmaceutico parlano di 580mila persone che si sono rivolte ai 1.800 enti caritativi capaci di far fronte a esigenze sanitarie e farmaceutiche. Si tratta di una popolazione che nello schema della sanità universalista dovrebbe risultare coperta in ogni bisogno. Tuttavia la consistenza sociologica di questa popolazione rappresenta un problema non rinviabile.

Come si risponde a questa nuova emergenza sociale? Nonostante ormai quasi un ventennio di utilizzo (spesso retorico) del termine “sussidiarietà” come meccanismo per il ripensamento della governance e le buone pratiche che ne sono conseguite per la creazione di sistemi integrati tra politiche pubbliche e welfare privato sociale (soprattutto nel campo delle politiche socio-assistenziali), il sistema sanitario pubblico e quello costruito da queste realtà del mondo non profit continuano a correre su binari paralleli. Ma è ancora possibile non riconoscere che i servizi sanitari offerti dal variegato mondo del terzo settore possono (e forse devono) essere riconosciute pienamente come parte di una complessiva offerta pubblica, specificamente rivolta alle fasce sociali più basse? Gli anniversari di questo lungo 2018 possono essere l’occasione per provare a dare concrete risposte a questa rilevante domanda.

*Università Statale di Milano e Università Cattolica del Sacro Cuore

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