«Ci vediamo al ritorno». Secondo le più accreditate ricostruzioni, questo saluto al collaboratore e attuale parroco della cattedrale, Alejandro Russo, sono state le ultime parole pronunciate dall’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio al lasciare Plaza de Mayo per incamminarsi per l’aeroporto di Ezeiza. Era il 26 febbraio 2013: nel giro di qualche ora avrebbe preso il volo per Roma. Pensava di tornare in tempo per celebrare la Pasqua a Buenos Aires, aveva già scritto l’omelia per il Giovedì Santo. Le cose andarono diversamente. Nei successivi dodici anni quel “ritorno” è rimasto sospeso. “Volver” non è solo il più celebre dei tanghi di Carlos Gardel – genere molto amato da papa Francesco -, è un modo d’essere radicato nelle profondità dello spirito argentino. L’estremo sud del Sud America è il frammento più europeo e cosmopolita del Continente: terra di migranti venuti da ogni dove. Un popolo di popoli sradicati, ansiosi di costruire una patria nuova pur perennemente incompiuta.
La nostalgia per una perdita tramandata di generazione in generazione è uno dei tratti dell’identità nazionale. Il primo Pontefice argentino della storia, porteño – come sono chiamati gli abitanti di Buenos Aires – fino al midollo e legatissimo alla sua città, ha declinato questa caratteristica in un orizzonte spirituale. Una delle tante lezioni ancora da comprendere appieno – ben oltre le rive del Rio de la Plata – del suo profetico magistero. Francesco non è tornato nella “sua” Argentina. I suoi 4.437 giorni di assenza sono stati tema ricorrente di dibattito. Ha lambito i confini della Repubblica quattro volte con i viaggi in Brasile, Paraguay, Bolivia e Cile. Più volte ha espresso il desiderio varcarli, non appena vi fossero state le condizioni. L’ultima l’anno scorso. Nel 2017, si era quasi riusciti a trovare la data. Ma alla fine non si è fatto. C’era la consapevolezza da parte del Pontefice che i diversi leader avrebbero cercato di dare una cornice politica alla sua presenza. La corsa alla foto con il “proprio Papa” era diventata un’ossessione nazionale. Ma questa è solo una parte della spiegazione. «Ѐ come se noi argentini non volessimo lasciare che Bergoglio fosse Francesco», ha detto Jorge García Cuerva, arcivescovo di Buenos Aires e amico del Pontefice. Una frase che aiuta a capire cosa significasse per il porteño Jorge Mario essere vescovo di Roma e, da lì, del mondo.
“L’uscita”, a cui instancabilmente ha invitato la Chiesa, va ben oltre gli slogan e qualche incursione più o meno sporadica in periferia. Per il Papa gesuita era sinonimo di “decentramento”, uscire dalla gabbia di un io irrigidito per far posto all’altro in cui si trova l’Altro, pur senza smettere di essere chi si è. L’identità aperta, invocata in chiave umana e geopolitica, è, prima di tutto, un’attitudine dello spirito. Bergoglio l’ha coltivata in 88 anni di vita e oltre sei decenni di ministero. Per questo, da successore di Pietro ha saputo vivere l’inconfondibile argentinità in chiave autenticamente globale nonostante alcuni – soprattutto in Europa e negli Usa – liquidassero le sue parole e i suoi gesti radicalmente evangelici come bizzarrie da Sud del globo. La mappa dei 47 viaggi internazionali in 66 Paesi – il “Vangelo con i piedi” di un Pontefice che non amava spostarsi – è stata dettata dall’urgenza di toccare per lenire le ferite di un mondo in frantumi. Ovunque, dalla Svezia per i 500 anni della Riforma luterana alla Papua Nuova Guinea, dall’Iraq al Sud Sudan, dalla Colombia all’Amazzonia all’apertura della Porta Santa a Bangui, ha cercato di gettare semi di pace e di una riconciliazione possibile.
Se avesse potuto, sarebbe andato in Ucraina e Russia, bussare alla porta della parrocchia di Gaza affollata di profughi, accarezzare le rovine della cattedrale di Port-au-Prince, mute testimoni della guerra del tutti contro tutti che divora l’isola. Non perché il Papa potesse risolverne i problemi. Ma perché convinto che la testimonianza del Vangelo, compiuta con disinteresse e rispetto della libertà altrui, possa innescare processi nuovi. Imprevedibili e incontrollabili. A chi li apre è richiesto il coraggio cristiano di non farsi condizionare dall’ansia del risultato immediato. Lo ha ribadito nelle riflessioni della Via Crucis del Venerdì Santo, un testamento spirituale: Cristo è irrevocabile nella fiducia con cui si mette nelle nostre mani. “Tu Gesù (…) la tua scelta l’ha fatta. Ora tocca a noi”.
Certo che desiderava rivedere l’Argentina. Ma sapeva di doverlo fare al momento opportuno. Quando, cioè, il suo arrivo potesse aiutare a ricucire la “grieta”, la spaccatura cronica, che da troppo tempo dilania la nazione. Non perché altri lo utilizzassero per approfondirla. Il tempo non è venuto ma non per questo ha abbandonato la sua terra. Al contrario, attraverso comunicazioni costanti con amici, ex collaboratori, persone fidate, ne ha seguito le vicende passo dopo passo. Non ha mai lasciato soli i “suoi” villeros, abitanti delle periferie di Buenos Aires, da cui era solito andare da arcivescovo. E proprio da loro è venuto uno degli omaggi più commoventi: la cattedrale porteña è piena da due giorni di donne e uomini accorsi dalle sterminate baraccopoli. Un gesto d’affetto per chi «è rimasto sempre al nostro fianco. Sempre», ripetono. Francesco non è tornato e, al contempo, non se n’è mai andato. Come scriveva Jorge Luis Borges, morto in auto-esilio volontario, autore molto amato dal Pontefice: «Le strade di Buenos Aires sono le mie viscere».