La malattia e quella normalità tutta da riscoprire che dà speranza
sabato 16 settembre 2017

Caro Avvenire,
è come se all’improvviso il movimento della mia vita avesse ricevuto uno stop. Capita no? Nei film, un fermo immagine... Così è stato. Quella diagnosi: carcinoma. Poi, la vita ha ripreso ad andare e mi sono guardata lentamente intorno: la stessa realtà, la stessa! Ma era cambiata! Perché tante corse, perché tanti lamenti? Io lo so che ho uno scampolo di vita davanti, ma voglio, finché posso (se il ragno non ha già figliato da qualche parte) viverlo in modo diverso. Le singole cose, i singoli gesti, le stesse persone che davo ormai per scontati nella mia vita ed erano diventati come i soprammobili, che a un certo punto sono parte integrante della tappezzeria e non li vedi più, si sono come ri-materializzati e hanno ottenuto dal mio nuovo punto di vista un enorme valore aggiunto. Per esempio: la spesa! Ma quante volte l’ho odiata? E di corsa... e incastrata tra un impegno e l’altro... e solo poche cose... ed esci con delle borse pesantissime… e poi ti dimentichi qualcosa di importante… Beh, ora mi manca! Sì, è vero! Ma prova a scrivere per mesi e mesi la nota della spesa da far fare a qualcun altro (a un marito che non è pratico dei supermercati). Quando sei inappetente, con la bocca acida, e devi mettere insieme un pasto per due uomini che mangiano come lupi! Se non vai a fare la spesa ti manca l’ispirazione dei prodotti esposti, la tua creatività è bloccata, non ti viene in mente che ti occorre il tale ingrediente, vedendolo. Soprattutto non condividi con le altre persone un compito sì faticoso ma normale, perché tu in quel momento con il carrello sei normale! Circondata da altre persone, sei in mezzo alle persone! È un punto di incontro, perché puoi trovare una persona che conosci e scambiare due parole o conoscere qualcuno di nuovo con cui magari arrivare a scambiarsi velocemente una ricetta. È difficile metterlo in parole: è il circolo della affettività, dell’umanità. Questa esperienza mi ha chiaramente fatto conoscere, confermare o riscoprire il bene di chi mi circonda. Ed è quell’alone di affetto e di sostegno che avverti intorno a te che ti dà la forza di accettare ciò che ti è caduto addosso, stordendoti. Questo affetto ti dà il richiamo della normalità, ti dà speranza, la carica per credere nel domani anche quando le forze e l’aspetto fisico deturpato ti fanno sentire uno straccio, ti fanno rannicchiare in un angolo, ti fanno sentire un alieno, lontano dal mondo reale. Ho scoperto anche che per i miei figli non ero invisibile come credevo! Si sono dimostrati teneri e attenti, mi hanno dato carezze e abbracci che non credevo di poter ricevere più. Mio marito mi fa trovare al mattino la tazzina per il mio caffè sul tavolo. Vuota. Ma è un gesto d’affetto aggiunto. Per come è fatto lui... Soprattutto mi ha sempre accompagnato alle visite, ai controlli, alle chemio con la levataccia alle sei, lui che ama far tardi a letto al mattino. Senza mai lamentarsi. Nessuna parola, ma gesti che parlano.

Giovanna R.

Lettere come questa non richiederebbero alcuna risposta, ma solo uno spazio di silenzio. Vorrei solo dirle, signora Giovanna, che le sue parole mi hanno ricordato il tempo molto lontano in cui mia sorella adolescente aveva lo stesso suo male, ed era ricoverata in ospedale, e io, bambina, le giravo attorno stupita, senza capire esattamente che cosa stesse accadendo. Mia madre muta e pallida sempre seduta accanto a quel letto, e i bigliettini che mia sorella vergava con la sua calligrafia ancora tonda, ancora da bambina: «Settimana enigmistica, un pennarello, un temperamatite, e dal panettiere due focaccine». La breve lista di una spesa che io andavo a comprare nelle vie attorno all’ospedale, in un inverno nebbioso. Ci penso ancora come a un tenebroso sogno. Mia sorella non è tornata a casa. Ma, da adulta, in quello stesso ospedale mi sono trovata con un figlio molto piccolo che aveva avuto un incidente. Bisognava aspettare che passasse la notte, senza che si presentasse una emorragia cerebrale. Notte interminabile, notte eterna, in cui ogni cosa della mia vita mi sembrò irrimediabilmente perduta. Ma all’alba il bambino strillò dalla fame, succhiò voracemente il latte. «Riportatelo a casa», ci disse il medico, sorridendo. Ecco, quel giorno, signora, credo di avere sperimentato uno sguardo simile al suo: tutto, la strada, Milano, la gente, mi sembrò meraviglioso – e assurdo, come non me ne fossi mai accorta. La vita di nuovo donata aveva colori mai visti, ed era splendida. Ogni cosa attorno a me mi pareva una grazia. Non mi durò molto, quello sguardo: presto tornò l’abitudine, e me ne dimenticai. Ma forse era quello, sulla realtà, lo sguardo più vero. E lei, signora, che nella sua malattia lo sperimenta, lo racconti, lo spieghi. Insegni a chi le è intorno il suo sguardo limpido e grato.

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