giovedì 10 marzo 2011
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«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale». Così recita oggi il giuramento professionale che ogni medico pronuncia all’inizio della propria attività. La stessa formula viene ripresa nell’articolo 3 del Codice deontologico, con la specificazione, ancora più vincolante, che tutto ciò costituisce "dovere del medico".Esercito la professione medica quale specialista in neurochirurgia da 35 anni, e da 15 dirigo un dipartimento di neuroscienze (neurologia e neurochirurgia) a Brescia. Proprio in forza della mia specializzazione, sono migliaia le persone in condizioni cliniche "estreme" che ho soccorso e curato: dai traumi craniocerebrali all’ictus, dalla sclerosi multipla alla Sla, dagli stati vegetativi alle demenze, e ancora molto altro. Da qualche tempo molti di questi stati patologici sono entrati nel linguaggio comune, diffuso dai media nell’affrontare le questioni bioetiche che riguardano il cosiddetto "fine vita". Eutanasia, accanimento terapeutico, sospensione delle cure, malato terminale, autodeterminazione sono diventati argomenti di dibattito pubblico, spesso – purtroppo – affrontati con scarsissima o addirittura errata conoscenza scientifica. Non si può certo imputarne la colpa all’"uomo della strada". La responsabilità va ricercata in altre agenzie culturali. E poiché sono medico, vorrei limitarmi a guardare dentro "casa mia". Quella dell’arte medica è storia di cura e di servizio che conosce episodi di vera "alleanza di cura" con il paziente e i suoi familiari, sempre nella speranza di vincere insieme, o almeno di percorrere insieme il tunnel del dolore e del disagio. Non sempre è stato così, ma va detto chiaramente che quando ciò è accaduto è perché si è tradito e violato palesemente lo statuto fondativo della nostra professione. Sono state scritte pagine tragiche quando i medici si sono asserviti a ideologie contrarie al rispetto della vita e della dignità di ogni persona umana, abdicando al loro dovere sociale, professionale, deontologico ed etico. Mi chiedo come possa esserci spazio per scelte eutanasiche o di abbandono di cura nella mia professione. Dobbiamo studiare ogni giorno per conoscere le malattie, contrastarle e vincerle, se possibile. Non esiste un solo rigo nei nostri testi in cui la "dolce morte" venga menzionata fra le opzioni terapeutiche. La nostra formazione tecnica e culturale non prevede che diventiamo attori di morte o di rassegnato abbandono. Certamente laddove, per contro, operiamo accanimento commettiamo un grave errore, ma né più né meno di quando dovessimo scegliere di porre fine ad una vita che ci è affidata. Neppure la richiesta, implicita o esplicita, del paziente può costituire una deroga a questo dovere, come lo definisce il nostro codice deontologico. L’alleanza medico-paziente è "terapeutica", e non c’è spazio per eutanasia, suicidio assistito o sospensione di alimentazione e idratazione, che conduce – come ben sappiamo – a morte per inanizione. A proposito della nutrizione, ritengo tecnicamente inaccettabile un parallelo fra la dichiarazione anticipata e lo "sciopero della fame", dato che questo può essere revocato dal soggetto in tempo reale mentre sta concretamente provando che cosa significhi "morire di sete e fame". Non così la dichiarazione "ora per allora". Ritengo che – visto il clima culturale che corre – sia necessaria una legge che tuteli davvero l’alleanza di cura in termini di rispetto e aiuto fra medico e paziente. È un’opportunità anche per confermare lo statuto della professione medica, educando medici, pazienti e l’intera società alla "medicina buona", votata alla salute e alla vita.
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