giovedì 28 luglio 2016
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Il primo agosto del 1966, Charles Whitman, uno studente di 25 anni, dopo essersi barricato sulla torre dell’Università di Austin in Texas, dove frequenta il corso di ingegneria, apre il fuoco su chiunque si trovi a passare nel raggio di 300 metri. L’esperienza militare nel corpo dei Marines e le armi di precisione che ha acquistato proprio quella mattina, permettono a Charles di compiere una vera e propria carneficina – 14 morti e 32 feriti – prima che un manipolo di agenti riesca a sorprenderlo e a freddarlo sul colpo. La tranquilla comunità cittadina rimane ammutolita e sconvolta di fronte ad una tragedia incomprensibile.  Perché mai Charles, un bravo ragazzo ben educato, con una giovane moglie e una vita all’apparenza come tanti altri, ha lucidamente pianificato la strage di persone che nulla gli hanno fatto, di perfetti sconosciuti? Le analogie con la recente tragedia del centro commerciale a Monaco di Baviera sono stridenti. Inesorabilmente costretti dalla capacità squisitamente umana di interrogarci sul perché delle cose, rimaniamo da sempre sgomenti di fronte a quegli avvenimenti che la ragione non riesce a comprendere. Come per Charles 50 anni fa, anche oggi arranchiamo faticosamente alla ricerca di una spiegazione. Cosa ha spinto un giovane adolescente a uccidere altre persone, la maggior parte suoi coetanei? Quale rancore si annidava nella sua mente omicida, arrivata addirittura ad attirare le vittime con fasulli annunci sui social media? Esclusa dagli investigatori qualsivoglia matrice terroristica, risalta la coincidenza con l’anniversario della strage compiuta da Anders Breivik a Utoya 5 anni fa. Come Charles Whitman allora, Ali Sonboly ha sterminato innocenti sconosciuti. Lo scorso anno, Andreas Lubitz, un giovane pilota di linea, volò deliberatamente verso la morte trascinando con sé centocinquanta persone tra passeggeri ed equipaggio. Cosa può portare una persona all’apparenza normale, l’inquilino della porta accanto, a compiere azioni così drammatiche? Nel caso della tragedia di Austin, è lo stesso Charles a porsi per primo queste domande. Nella notte precedente la tragedia, prepara lettere di addio, nelle quali spiega perché ha ucciso anche la propria madre «che amo con tutto il cuore» e la moglie, alla quale voleva evitare la vergogna delle sue azioni. Scrive poi «di non capire cosa mi spinga a scrivere questa lettera... Non riesco a capire me stesso in questi giorni. Sono considerato un giovane ragionevole e di intelligenza nella media. Tuttavia ultimamente (non riesco a ricordarmi quando è cominciato) sono vittima di una moltitudine di pensieri insoliti e irrazionali». Charles conclude la sua lettera di addio chiedendo che venga effettuata un’autopsia sul suo cadavere nell’auspicio che si possa trovare una qualche spiegazione per le sue azioni e per i suoi frequenti e sempre più forti mal di testa. La lettera termina con i voleri testamentali di Charles, che lascia i suoi averi alla ricerca sulla malattia mentale, «nella speranza che questo possa evitare che altri intraprendano la mia stessa strada».  Il tumore che viene trovato nel cervello di Charles e che comprime strutture importanti per l’equilibrio emotivoaffettivo - al di là del dibattito che da allora si trascina sul suo effettivo ruolo causale - appare come un segno concreto di quello che Lucrezio ci aveva insegnato duemila anni orsono Al cospetto di eventi tanto gravi, ci affanniamo spesso nella vana ricerca di una spiegazione. È dentro di noi che dobbiamo cercare la causa del nostro agire, anche di quegli atti che per la loro gravità tendiamo ad attribuire a chissà quali forze esterne. Non sappiamo se, novello Charles, anche Ali avesse confidato a qualcuno di avere pensieri irrazionali che non comprendeva, forse l’aveva detto a un amico, ora fermato. Non sappiamo quale nefasto turbinio di profonda depressione, rancorosa ideazione delirante e malsano senso di onnipotenza abbia innescato la follia omicida di Ali o di Andreas. Sappiamo solo che è nella loro mente sconvolta dal disagio psichico che dobbiamo cercare la causa, non altrove. Senza demonizzare la malattia psichiatrica, ma parimenti senza negarla. *Psichiatra e direttore Scuola IMT Alti Studi, Lucca
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