giovedì 12 marzo 2009
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Delle immagini da Stoccarda quella che più sbalordisce non è la scuola circondata da teste di cuoio, né la co­lonna di ambulanze accorse inutilmen­te. Invece ti trafigge la foto di un bambi­no sui dodici anni, con i capelli corti; un bambino sorridente che brandisce un trofeo vinto nel torneo di ping pong, a scuola, cinque anni fa. E che quel bam­bino felice sia Tim Kretschmer, 17 anni, il ragazzo che ha massacrato dieci com­pagni della sua vecchia scuola e altre cin­que persone prima d’essere ucciso, è il se­gno di quanto sia profondo il mistero di un uomo; un abisso, in cui nemmeno pa­dre e madre e fratelli a volte riescono a scandagliare. Il secondo elemento che quasi inquieta, nella tragedia tedesca, è l’ordine del quartiere e della scuola del massacro. A Winninden, satellite di Stoccarda, la Al­bertville Reichschule pare un istituto mo­dello, così nuovo e circondato da un ver­de ben curato. Il sito on line del quoti­diano Bild si sofferma sui pavimenti ti­rati a lucido, sull’ordine dell’aula d’infor­matica. Gli altri, i compagni, còlti dai fla­sh mentre se ne scappano a casa atterri­ti, hanno facce poco più che da bambi­ni. Da quale antro sbuca allora la brama di nulla che ha spinto un ragazzo, usci­to da quella scuola l’anno scorso, a pre­sentarsi un mattino vestito di nero e ar­mato da giustiziere, come in un film, E­lephant, che forse aveva visto? Follia, certo. Solo una psicosi può spie­gare che un adolescente covi un simile o­dio, e una mattina, freddo, passi all’a­zione. Un folle, come folle anche quel Michael da Kinston, Alabama, che nelle stesse ore ha ucciso sua madre e nove al­tri, prima di spararsi. Ma proprio la coin­cidenza del giorno, e della ferocia, sim­metrica ai due capi del mondo, provoca: follia, d’accordo, ma in quale humus si abbevera una simile ansia di morte? Nel­l’orizzonte di decorose villette che fa da sfondo a entrambi massacri, di cosa si e­ra nutrita finora la forza oscura che co­vava in quei due, apparentemente nor­mali? Solo, a Stoccarda, un elemento come u­na nota stonata. I genitori di Kretschmer tenevano in casa diciotto armi. Regolar­mente denunciate. E però, diciotto armi sono un museo in casa, una presenza in­combente. Stava a osservare, il ragazzo, quelle canne lucenti, ben pulite? Cose custodite con cura, maneggiate con cau­tela e compiacimento. Non ne era forse affascinato, il bambino? Strano ragazzo, pareva che crescendo qualcosa gli pe­sasse addosso; forse una ostinata sensa­zione di solitudine, forse la precoce sen­sazione di essere in qualche modo di­verso, con diversi pensieri. Gli amici che avvertono l’alterità, e ti evitano; la paro­la umiliante di una ragazza, magari, l’u­nica che ti sta a cuore. E cova, cova il ma­le, e cresce. Perché un giorno la tristezza, coltivata e già gonfia di rabbia, si è soffermata su quelle pistole? Già, le pistole. Le armi, al­meno, sono cosa semplice: basta preme­re il grilletto. È facile. Tanto è paziente il lavoro di crescere un bambino, e farne un uomo, tanto è rapido e semplice spa­rare. Non c’è bisogno neanche di essere forti. Spari, e l’altro è cancellato. («Non siete ancora tutti morti?», ha urlato Tim in un’aula, quasi stizzito). E quante volte quel folle progetto avrà nella sua stanza, la sera, al buio immaginato? Non un a­mico a dirgli: cosa fai lì, vieni, non uno sguardo in casa a accorgersi dell’abisso che si allargava. Il tarlo della follia, nel si­lenzio scava indisturbato. Nessuno, in quelle vie ordinate, nel lungo inverno e fra vicini borghesemente intenti a badare ai fatti propri, nessuno che veda. La quarta strage in una scuola in pochi anni, in Germania – in America, hanno perso il conto. Cos’è? Forse la follia de­clinata nell’Occidente del 2009: decoro­se città, legioni di villette graziose. O­gnuno dentro solo davanti a un compu-­ter, ognuno monade che vive per sé. E la malattia di un ragazzo che in questa a­nonimia si installa, padrona, e divora.
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