La feroce logica
sabato 8 aprile 2017

Sono diverse, e tutte compatibili, le fredde ragioni che possono spiegare la decisione del presidente Trump di lanciare 59 missili Tomhawk sulla base aerea siriana dalla quale, secondo l’intelligence Usa, sarebbero partiti i jet responsabili del bombardamenti chimico sulla popolazione civile di un villaggio nella provincia di Ibdil, costato la vita martedì scorso a un centinaio di civili, almeno un terzo dei quali bambini. Possiamo provare ad ordinarle a partire dai fattori internazionali per poi vedere quelli di natura domestica, cercando nel contempo di trarre qualche provvisoria conclusione, segnalare i rischi e individuare i possibili sviluppi. Ma da una premessa occorre prendere le mosse: secondo la logica adottata da Trump, la strage non poteva restare impunita. A costo di smentire anche in tema di interventismo “bellico” (come già sul freno alla speculazione finanziaria) se stesso e le promesse sbandierate in campagna elettorale. Certo, se dovesse essere provata la colpevolezza di altri, si aprirebbe una crisi molto grave. Ma i russi – che pure invocavano e invocano indagini super partes sulla strage – non sembrano in grado di esibire prove in grado di scagionare qui e ora Assad, altrimenti l’avrebbero già fatto.

Nel frattempo, il terrorismo ha colpito ancora, questa volta in Svezia, ricordando a tutti che, nonostante divisioni e interessi confliggenti delle varie potenze la necessità di una straordinaria unità di intenti nella lotta contro il terrorismo jiahdista rimane forte come prima. La settimana è stata infatti aperta e chiusa da due gravi attentati terroristici, a Mosca e a Stoccolma: la spaccatura russo-americana si colloca temporalmente e simbolicamente tra questi due terribili eventi. E ci ricorda che la guerra al terrore è un debolissimo collante, che le coalizioni per la lotta contro il Daesh o al-Qaeda reggono (e a fatica) a livello tattico per liberare Mosul o Raqqa, ma non sono estendibili ad altri obiettivi, neppure a livello regionale. Perché gli interessi degli attori (a cominciare da Mosca e Washington) su tutto il resto divergono.

Procediamo però con ordine, ricordando che la Russia si era fatta garante nel 2013 della distruzione dell’arsenale chimico di Assad. Se fosse acclarata la responsabilità di Damasco nell’attacco al villaggio di Khan Sheikun, bisognerebbe concludere che l’impegno non è stato onorato, anche per incapacità o complicità di Mosca. Che, com’era chiaro fin da mercoledì, non avrebbe mai acconsentito a una “punizione” dell’alleato siriano nel rispetto delle procedure del diritto internazionale e con la benedizione dell’Onu. L’amministrazione Trump ha deciso di agire egualmente. E in modo tale – «si guarda al cane per il padrone», dice un antico adagio – da far arrivare un duro e duplice monito oltre che ad Assad anche alla Russia: si richiama lo «zar» Putin alla responsabilità di esercitare una maggiore sorveglianza sul suo mastino e gli si ricorda che non può illudersi di sostituirsi agli Stati Uniti in Medio Oriente; può reclamare legittimamente un ruolo nella regione, ma non può espellere Washington. Gli accordi tripartiti di Astana (tra Russia, Iran e Turchia) a questo anche miravano: e proprio per questo erano fragili e non in grado di fornire stabilità alla regione. Del resto lo si è visto già mercoledì, quando Erdogan si è sostanzialmente sfilato dall’asse con la Russia, invocando la punizione e la rimozione di Assad. Trump, insomma, ha dimostrato a Erdogan che, in attesa della «punizione di Allah» da lui invocata, l’America poteva somministrare la sua e così facendo ha ricondotto il riottoso sultano turco all’ovile, almeno provvisoriamente.L’attacco è stato lanciato mentre Trump era a cena con il presidente cinese Xi. Anche qui il messaggio rivolto a cinesi e nordcoreani è chiaro: gli Usa sono disposti ad assumere i rischi necessari per preservare la propria sicurezza.

Quanto avvenuto nella notte del 6 aprile non fuga certo i dubbi sulla statura internazionale di Trump e sulle sue qualità di statista.

Ma è un fatto che ieri il capo della Casa Bianca ha incassato non solo il plauso prevedibile di israeliani e monarchie sunnite, ma quello (molto meno scontato) degli europei. E se fino all’altro ieri Putin appariva l’astro (ri)nascente del firmamento internazionale, oggi Trump ha riconquistato con durezza il centro del ring.

Proprio attraverso il rapporto tra i due è possibile leggere le motivazioni di carattere domestico che sicuramente avranno concorso a spingere il presidente all’azione. L’ombra del Russiagate continua ad aleggiare minacciosa sulla sua testa e il bombardamento di ieri chiarisce una cosa: seppure Putin possa essersi dato da fare per facilitare l’elezione di Trump, può scordarsi di poterne condizionare l’operato. Allo stesso tempo, un’azione militare spettacolare e limitata consentirà a Trump di proporsi alla sua opinione pubblica nelle vesti di “comandante in capo”, e respirare un po’ nei sondaggi. Vedremo come i russi reagiranno.

Gelidi e spietati giochi di potenza, ancora una volta sulla pelle dei siriani sudditi di Assad e ostaggi da troppo tempo di una guerra feroce e ingiusta. Proprio per questo, è ora che tutti i processi siano ricondotti all’alveo naturale delle istituzioni internazionali, Onu in testa. Ma affinché ciò che è opportuno diventi anche possibile, è fondamentale che tutti si adoperino per renderne efficace l’azione invece che tentare di bloccarla sistematicamente.

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