giovedì 4 ottobre 2018
Sono molti i segnali che nella società sta maturando un nuovo tipo di sensibilità ecologica
Fede e romanticismo per salvare il pianeta: una sfida dal basso
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Le generazioni del XXI secolo rischieranno di perdere la sfida climatica per mancanza di romanticismo? A prima vista, l’interrogativo potrebbe apparire bislacco. Ma a giustificarlo basta una constatazione storica: fra le visioni del mondo contemporanee fiorite in Europa e in Occidente, quella dei romantici ha promosso ed esaltato il legame fra umanità e natura scavalcando spesso la cesura politica fra destra e sinistra, fra conservatori e progressisti. Fra i romantici, ci sono stati anche pensatori, artisti ed attivisti talora vicini al campo conservatore ed altri persino sedotti dal socialismo rivoluzionario, ma tutti hanno sempre difeso a spada tratta il bisogno umano e civile di coltivare un legame sentimentale profondo con la natura, contro le insidie tipicamente moderne di un meccanicismo esasperato, del razionalismo estremo, di un tecnicismo forsennato. Insomma, un’unica battaglia per ciò che resta d’incantevole nella vita e nel suo mistero, lasciando sempre la porta aperta, o almeno socchiusa, alla spiritualità.

In proposito, fanno riflettere certi segnali recenti provenienti dagli Stati Uniti retti dall’Amministrazione Trump, o dall’Europa che cerca a fatica di ergersi a paladina internazionale della sfida climatica. Il dietrofront annunciato dalla Casa Bianca rispetto agli impegni dell’Accordo di Parigi sul clima non sembra aver scoraggiato la società civile statunitense, riunita dietro alla cordata We are still in, che riunisce circa 2.500 entità (amministrazioni cittadine, altri enti locali, imprese, ong, movimenti) decise a non far uscire del tutto il Paese dai binari di un contenimento delle emissioni di gas a effetto serra. Non a caso, è proprio negli Stati Uniti, a San Francisco, che si è tenuto fino al 14 settembre il Vertice globale sull’azione per il clima. Un evento riassunto anche dalle parole dell’ecuadoregno Mauricio Rodas, giovane sindaco di Quito. Forse ispirato pure dall’altitudine della capitale sotto la sua responsabilità, ha lanciato: «È nelle città che la più grande battaglia deve essere condotta». In altri termini, al di là dell’Atlantico, nonostante la freddezza dell’Amministrazione Trump verso la sfida climatica, o forse in parte a causa di questa, si stanno visibilmente sperimentando nuove strade d’impegno dal basso. Si protesta e si rivalutano pure voci e visioni giunte dal Sud del mondo.

Anche in Europa, nonostante la posizione ufficiale Ue di rispetto degli accordi di Parigi, le società civili scendono in piazza e sono inquiete, come si è visto con i lunghi cortei dello scorso 8 settembre in tante città del continente, in occasione dell’evento Rise for climate. A Lilla, uno dei tanti capoluoghi francesi in cui si è protestato, un manifesto colorato mostrava un albero con i rami sempre più spogli dei biglietti di banca (sostituti delle foglie) in caduta libera, recitando: «La Madre che ci nutre non sopporta più di essere un biglietto verde». Nella scia del successo di questi cortei, un collettivo di cittadini ha lanciato l’idea di promuovere, attraverso i social, una giornata simbolica 'senza acquisti' prevista a inizio ottobre, dietro lo slogan: «Utilizzo il mio potere di consumatore per far ascoltare la mia voce di cittadino».

Se a Washington e a Bruxelles gli schieramenti ufficiali dei vertici politici sembrano diametralmente opposti, molto più in basso, un comune sentire inquieto, ancora minoritario ma non più trascurabile, si propaga lentamente fra le società civili occidentali. Un bisogno di riconsiderare in qualche modo il rapporto delle città e delle comunità locali con la natura, oltre le ideologie e gli schematismi novecenteschi. Oltre il conservatismo e il progressismo, insomma. Dalla bocca di quanti hanno protestato a decine di migliaia nelle scorse settimane per 'proteggere il Pianeta', affiorano pure parole e concetti come 'sobrietà felice', 'decrescita' o 'slow city', apparentemente in contraddizione con il paradigma ufficiale di un’auspicabile 'crescita vigorosa' ancora propugnato non solo a ridosso delle Borse.

Intravediamo l’alba di una stagione di redivivo romanticismo civile? È troppo presto, naturalmente, per dirlo. Ma secondo il noto sociologo francese Bruno Latour, delle porzioni significative delle società civili occidentali cominciano a percepire il futuro imminente come un bivio. Una sorta di aut aut che il pensatore formula in termini alquanto radicali: «Fra modernizzare ed ecologizzare, occorre scegliere, proponendo un altro sistema di coordinate». Dovrà essere un nuovo sistema, aggiunge Latour, destinato ad «accompagnare un popolo errante fra l’economia e l’ecologia», per correggere il modello novecentesco in crisi dell’homo oeconomicus. Ma se fosse davvero così, come non ripensare all’immaginario tipicamente romantico di un’umanità assorta che contempla frontalmente la natura?

A ben guardare, negli ultimi anni, una vena romantica è visibile soprattutto nelle personalità talora eccezionali e nei movimenti ecologisti appartenenti alla famiglia dei 'piantatori d’alberi'. L’uomo che piantava gli alberi, il celebre racconto allegorico di Jean Giono che narra lo stupefacente e silenzioso exploit del pastore Elzéard Bouffier nella Provenza a due passi dalla frontiera italiana, continua a suscitare probabilmente una moltitudine di discrete vocazioni ai quattro angoli dell’ecumene.

Del resto, nel 2004, il Nobel per la Pace era andato alla più celebre piantatrice d’alberi africana, la tanto compianta keniana Wangari Maathai, scomparsa nel 2011. Fondatrice già nel 1977 del Movimento della Cintura verde (Green belt movement), partendo anche dalle proprie convinzioni cristiane, la militante aveva intuito in fretta ciò che tante celebri università, come Oxford, hanno in seguito dimostrato in dettaglio, numeri alla mano. Piantare alberi e restaurare foreste è un modo privilegiato per salvaguardare gli ecosistemi, combattere la desertificazione, stabilizzare il clima e contrastare le emissioni di gas a effetto serra.

In Maathai, al contempo scienziata, militante associativa, leader politica, ha certamente note romantiche la sensibilità estrema per il legame fra salvaguardia dell’ambiente e difesa della dignità e della sussistenza delle popolazioni rurali, con una serie di effetti positivi a cascata. Un impegno con le mani e il cuore, a contatto diretto con la terra, per l’umanità di oggi e domani.

Giunto fino al Palazzo di Vetro dell’Onu, è divenuto emblematico, più di recente, pure il percorso di Felix Finkbeiner, bambino tedesco ispirato proprio dal carisma dell’icona keniana. Oggi 20enne, Felix ha già piantato o fatto piantare milioni di alberi, fin dall’età di 9 anni. Lo slogan di Plant for the Planet, l’organizzazione di ragazzini creata da Felix, è semplice come bere un bicchiere d’acqua: «Smettete di parlare, iniziate a piantare». Probabilmente, le nuove razionalità ambientaliste della diplomazia climatica intergovernativa e della green economy non basteranno a risolvere da sole la proibitiva equazione evidenziata da Latour, fondata sulla necessità di «un altro sistema di coordinate». Non di rado venata di romanticismo e irrorata dalla fede, servirà pure ritrovare su grande scala quella molla interiore ecologica che può spingerci ancora, in quest’inizio di XXI secolo ipertecnologico, ad amare intensamente un paesaggio o un semplice albero fino a proteggerlo. Fino a curarne le ferite, prima di rischiare di piangerne la scomparsa.

(2 - continua)

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