L’anniversario dei Patti Lateranensi
martedì 11 febbraio 2020

Con i Patti Lateranensi del 1929, Italia e Santa Sede trovarono il pieno accordo sul punto d’apertura del Trattato, che aveva creato tanti problemi dopo il 1870: «assicurare alla Santa Sede in modo stabile una condizione di fatto e di diritto la quale le garantisca l’assoluta indipendenza per l’adempimento della sua alta missione nel mondo». Questo traguardo, che ai nostri occhi sembra ovvio, all’epoca si scontrava con tanti ostacoli, tra i quali il timore dell’Italia che non riemergesse in qualche forma lo Stato pontificio. Quasi nessuno ricorda che nel 1872 l’Italia si oppose alla presenza della Santa Sede nella Conferenza internazionale del metro di Parigi. E motivò l’opposizione col fatto che, in quanto Stato sovrano, non poteva negoziare con soggetti privi della personalità internazionale. Nella sua piccolezza, l’episodio, che non fu l’unico, era un segno dei tempi, quando il trionfo degli Stati provocava scelte insensate.

Agli inizi del Novecento, specie dopo il primo conflitto mondiale, l’Europa comprese che l’indipendenza della Santa Sede era concettualmente diversa e più ampia rispetto a quella degli Stati, si proiettava in un orizzonte che superava i confini territoriali. Essa riguardava la diffusione del messaggio religioso, l’aiuto offerto dalla Santa Sede a tutte le vittime della guerra, delle persecuzioni, il sostegno per i diritti umani che si affermavano gradualmente. In altri termini, il riconoscimento che fondava il Trattato del Laterano investiva la Santa Sede e la comunità internazionale per uno scambio di valori e impegni universali.

Oggi possiamo tentare un bilancio e una riflessione su quanto s’è realizzato e sugli orizzonti dell’età della globalizzazione, segnata dalla freccia dell’universalità che s’è fatta sentire in Occidente, il luogo dove l’universalismo ha una più lunga storia, politica e religiosa. Proprio in Occidente il cammino per una storia comune dei popoli ha conosciuto grandi antinomie tra universalità e nazionalismi, già presenti nella modernità settecentesca. Il cosmopolitismo illuminista, pur fondato sulle nobili aspirazione di Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre e di Emanuele Kant, giunse nelle fasi cupe della Rivoluzione del 1789 a comprimere, umiliare, esigenze e identità religiose e nazionali, e si frantumò nella storia degli Stati nazionali nella modernità europea.

Le paure dell’Ottocento sono oggi scomparse, e s’è sviluppata un’attività planetaria della Santa Sede che non conosce confini e che segue una metodologia capace di incanalare i popoli sulla strada del confronto. Il primo grande obiettivo è quello di evitare che ci si chiuda nel recinto degli scontri politici e militari, agire per attenuare conflitti, favorire accordi, relazioni più intense. Il metodo dell’azione pontificia ha un’altra peculiarità, valutare con realismo le situazioni concrete, favorire ogni passaggio intermedio per giungere a risultati di più lunga durata. Di qui, il risultato che oggi si può registrare: quella che è, all’apparenza, la più piccola realtà giuridica del mondo, in pochi decenni ha come esteso il suo abbraccio all’intero pianeta, instaurando rapporti diplomatici con 183 Stati, e con le strutture internazionale.

Non di rado, la scelta compiuta è coraggiosa e stupisce. Possiamo limitarci a due recenti svolte strategiche nell’attività della Santa Sede, la prima diretta al Medio Oriente che conosce il conflitto più antico dal dopoguerra, l’altra volta a realizzare aperture di tipo planetario nell’area asiatica. È del 2015 l’Accordo globale con lo Stato di Palestina (che segue l’Accordo base del 2000), dove si uniscono i capisaldi della politica della Santa Sede, di valore prospettico o per l’immediatezza. Si spera «che l’Accordo possa costituire uno stimolo per porre fine in modo definitivo all’annoso conflitto israeliano-palestinese, che continua a provocare sofferenze ad ambedue le Parti».

Ma l’intesa «riguarda fondamentalmente la vita e l’attività della Chiesa in Palestina», evoca il «contesto complesso del medio Oriente, dove in alcuni Paesi i cristiani hanno sofferto persino la persecuzione», e può offrire un esempio di collaborazione e dialogo come possibile modello per altri Paesi arabi e a maggioranza musulmana.

Un progetto strategico è stato varato, nel settembre 2018, con la firma dell’Accordo provvisorio tra la Repubblica popolare cinese e la Santa Sede, che riflette uno dei tratti più salienti della diplomazia pontificia. Dopo un lungo processo d’avvicinamento tra le Parti, sin dai tempi di Giovanni Paolo II e l’ascesa di Deng Xiaoping, e da un impegno speciale di Benedetto XVI, l’evento si compie con papa Francesco, anche per le mutazioni economico-sociali maturate nell’epoca di Xi Jinping. L’accordo conferma il desiderio di allacciare rapporti con tutti gli Stati senza preclusioni ideologiche, e la gradualità con cui si cerca di conseguire esiti parziali, confidando nel loro ampliamento. La cornice dell’intesa riflette la scelta di fondo di papa Francesco, per il quale «la Cina è sempre stata un punto di riferimento di grandezza. Un grande Paese, più che un Paese, una grande cultura, con un’inesauribile saggezza». I richiami alla tradizione confuciana (e non solo), ai contatti che la dirigenza cinese del XVI secolo ebbe con Matteo Ricci, il primo a immergersi nella cultura dell’epoca, sono strumenti importanti anche per la politica e la diplomazia.

Come è stata decisiva la gradualità con cui è stato affrontato il tema della nomina dei vescovi e del superamento delle divisioni tra comunità cattolica e associazione patriottica. Si tratta di una gradualità che spinge le Parti alla piena riconciliazione che costituisce un traguardo storico di valore planetario. È questo il punto di congiunzione tra l’impegno universale della Chiesa e la sua azione all’interno delle realtà politiche, a ulteriore conferma che i Patti Lateranensi sono divenuti, con il tempo, lo spartiacque tra due epoche. Essi hanno permesso in Europa di superare polemiche e divisioni religiose, conseguire una laicità matura, affermare il metodo dell’incontro e dell’accordo tra Chiese e istituzioni pubbliche.

Nell’area europea, in conclusione di un cammino percorso nel secondo dopoguerra e con la fine del comunismo, si contano oggi decine di Concordati e di Intese tra Stati e Confessioni religiose. Con la legislazione pattizia dei singoli ordinamenti, con i princìpi costituzionali degli Stati democratici, s’è venuto formando un vero e proprio diritto comune europeo, che ha posto le basi per un rapporto tra religione e società fondato sul rispetto dei diritti umani e la dignità della persona. Le Chiese agiscono a livello comunitario per favorire una coesione sociale e nazionale: per una scuola aperta al fenomeno religioso e a tutti i giovani a prescindere dalla loro origine, per un prezioso sostegno sociale e finanziario all’immigrazione, per l’integrazione culturale anche attraverso il dialogo interreligioso.

Si consolida così un tessuto sociale che tiene unite società nelle quali tuttavia non mancano spinte centrifughe e disgregatrici. Oggi, infatti, ci si deve confrontare con una insidia nuova, quasi una malattia che sta corrodendo alcune società dell’Occidente, e che colpisce al cuore quella spinta universalista che è propria della modernità, e delle principali religioni. Si sta manifestando un’inversione di tendenza, intrisa di pessimismo ed egoismo, che fa emergere antiche paure, alimenta timori verso i lontani e i diversi, fomenta respingimenti anziché incontri e integrazione. Anche l’Europa, che ha quasi realizzato il sogno dell’unificazione a lungo invocata da Giovanni Paolo II sulla scia dell’opera di Cirillo e Metodio, conosce movimenti e partiti che si nutrono di un humus politico e culturale immiserito.

Ci stiamo rendendo conto che questa inversione di tendenza non riguarda solo le dinamiche interne, ma investe e ferisce anche le politiche solidali degli Stati a livello internazionale. L’indebolimento delle grandi strutture internazionali, a cominciare dall’Onu che stenta a intervenire nelle aree geopolitiche più sofferenti, la pretesa di superpotenze di poter agire da sole anche su temi che interessano l’umanità, sono il frutto di un impoverimento che colpisce la politica. Il sovranismo, dentro e fuori i singoli Stati, ha questo stile, grida quando non riesce a convincere, pretende di comandare quando non c’è consenso, vuole dividere ciò che può stare insieme, alza la voce per toglierla agli altri, utilizza persino la religione per separarla dalle altre. Nasce qui l’esigenza di un impegno forte, probabilmente di lunga durata, in Italia e nel mondo, per ridare armonia a una umanità che rischia di perderla, per rimetterla nel solco di una storia comune universale.


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