venerdì 6 novembre 2020
Predizione e profezia non sono mancate. Per questo autunno serviva la consapevolezza che ci avrebbe atteso una diversa normalità. Sono mancati i presupposti per viverla al meglio
La differenza tra saggi e sapienti spiega la crisi di lungimiranza

Ansa/Epa

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A fatti compiuti è facile dire che ve lo avevamo detto, che era inevitabile che con la pandemia andasse così. Piace a tutti sentirsi capaci di guardare lontano nel tempo, con qualche pronunciamento a effetto durante il caffè del dopo pranzo. Ma essere lungimiranti è una virtù seria e richiede esercizio dell’anima. Secondo Aristotele la lungimiranza era di Pericle, che aveva saputo reggere Atene. Pericle non era un sapiente, come potevano esserlo Talete o Socrate: i sapienti descrivono ordinamenti perfetti per una polis ideale, i saggi costruiscono ordinamenti adatti alla concreta situazione culturale, sociale, politica di una concreta polis.

Saggi e sapienti. Ruoli diversi, figure diverse. Oggi i sapienti – o meglio, i detentori di un certo tipo di sapienza – sono gli scienziati. Da poco, cento di essi hanno scritto con penna di ferro una lettera a Mattarella e Conte. Altri esponenti del mondo scientifico hanno preso parola e, dopo un’estate passata sulle passarelle del (parziale) disaccordo, sembrano finalmente (quasi) compattati per chiedere chiusure e restrizioni severe (altrimenti più che al lockdownsi va al blackout economico, come diceva Ballarin ad “Avvenire” il 2 aprile 2020). Stiamo contenti, che finalmente giunge a tutti un messaggio chiaro: i numeri di contagi e decessi da coronavirus, che dimostravano già di andare verso l’escalation esponenziale, corrono ora verso il picco, ma stiamo ancora prima del punto di flesso e occorre rallentare la curva. I sapienti lo aveva predetto. Poiché però predire è difficile (Gammaitoni–Vulpiani, “Perché è difficile prevedere il futuro”, Dedalo 2019), la scienza preferisce parlare di modelli che descrivono la realtà, basati sulla conoscenza di alcuni profondi meccanismi che in natura si ripetono e che possono essere invisibili ai non addetti ai lavori. Predizione o descrizione della natura che sia (il tema è così profondo che i filosofi della scienza sanno di manovrare concetti non facilmente rivendibili al grande pubblico), a ogni modo, quella degli scienziati non era lungimiranza o abilità da azzeccagarbugli, ma il risultato dell’applicazione di un metodo, di modelli, di valutazioni risultanti dal confronto tra esperti.

Nella fase della raccolta e dello studio dei dati il disaccordo era più che ammesso, ma non sul metodo. Posta la distinzione tra la percezione che possono a- vere un virologo, un epidemiologo, un infettivologo, un microbiologo, un fisico, uno statistico e un ingegnere sul tema, alla fine tutti dovevano confrontarsi con modelli matematici e la valutazione era pressocché la stessa: la diffusione del contagio (così come questa parola è usata oggi nella scienza) ha i tratti di una curva esponenziale. Poiché essa avviene per mezzo di esseri umani occorre agire sui comportamenti e frenarla. Gli scienziati rendevano manifesto, basandosi sui numeri, il comportamento della realtà. A meno di dietrologie e complottismi, tutti potevano estrapolarne conseguenze, tra le quali che se non si fosse agito in tempo si sarebbe avuta una seconda ondata.

Ed eccola, la seconda ondata. Ad atterrirci più che mai, ad abbattere lo spirito perché tanti sforzi sembrano buttati all’aria, a riscoprirci vulnerabili e ad allontanarci gli uni dagli altri. La colpa non è dell’improbabile impredicibile, che pur governa la vita di tutti. Non siamo davanti al “cigno nero”. La seconda ondata non è il frutto di errori previsionali, ma di errori applicativi. Posto che ci sono studiosi che ritengono che anche alcuni animali sono capaci di previsioni (D. Gilbert, T. Sudden- dorf), gli unici animali a poterlo fare con coscienza matematica sono gli esseri umani. Vero che i numeri non piacciono quando dicono cose antipatiche, ma leggendo i numeri senza emozionarsi troppo essi sono una pista per ottenere qualche lucida istruzione.

Se non c’è lungimiranza e non si ascoltano predizioni/descrizioni, restano le profezie. Gregorio Magno riteneva che il profeta sapesse guardare nel passato e nel futuro svelando verità nascoste, mentre Gioacchino da Fiore pensava che la profezia dipendesse da una speciale intelligenza spirituale. In altre parole, profetare non è contemplare intristiti il passato per cristallizzare il futuro e gli studiosi (M. Reeves, G.L. Potestà, R. Rusconi) hanno dimostrato che esistono molte accezioni del termine. Resta un elemento comune: per profetare occorre entrare profondamente nella realtà, aprire gli occhi per vedere davvero cosa si ha davanti (fino a diventare capaci di rinnovare la predicazione e l’esegesi spirituale, secondo Ildegarda di Bingen).

Alcuni pensano che alla Chiesa del nostro tempo manchi spirito di profezia, poiché non ribadisce ciò che nel passato era chiaro. Eppure, la profezia come abilità a svelare ciò che è nascosto (non da azzeccagarbugli, “falsi profeti”, Tt 1,10) e una logica anti–pandemica era stata individuata prima della pandemia. Tutto è connesso ( Laudato si’ 117): siamo in rete, quel che fanno individui, popoli e nazioni è interdipendente e servono nuove forme di responsabilità reciproca. La realtà supera l’idea ( Evangelii gaudium 231): la realtà viene prima delle interpretazioni (soprattutto se scomoda), e i dati sono dati, i fatti sono fatti e i numeri sono numeri. Fingere che tutto questo non ci sia irrigidisce le interpretazioni rendendole incapaci di sostenere la complessità del presente. E ora, chi pensa «che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» ( Fratelli tutti 7). Custode delle fragilità umane, la Chiesa può fare come san Francesco, che anche fu profeta (P. Messa, “Francesco profeta. La costruzione di un carisma”, Viella 2020) sollevando l’anima da fragilità e paure, non imponendo dottrine ma comunicando l’amore di Dio (FT 4).

Lungimiranza, predizione e profezia. La seconda e la terza, almeno, c’erano. La prima anche, forse, in alcuni. Certo è che servivano, per questo autunno, la consapevolezza radicale che ci avrebbe aspettato una “diversa normalità”. Serviva di organizzare presupposti per viverla al meglio e unità sovrapartitica nel perseguirla. Non servivano rivelazioni speciali e complicate, ma solo di entrare nella realtà e applicare concetti già disponibili. È nella crisi che servono dei mezzi concreti e spirituali per alimentare le speranze e mobilitare le energie. Stiamo a vedere. Una partita si è quasi persa. Facciamoci aiutare, Governo, Regioni e comuni mortali, a vedere quel che è nascosto e a non perdere la partita che ci spetta.

Flavia Marcacci è docente di Storia del pensiero scientifico alla Pontificia Università Lateranense

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