La nostra democrazia si custodisce riavvicinando gli elettori a chi viene eletto
sabato 21 ottobre 2017

Gentile direttore
con le recenti discussioni in merito alla legge elettorale l’opinione pubblica si indigna di fronte alle famosa questione dei nominati che oggi siedono in Parlamento e che dovrebbero rappresentare un territorio, senza aver ricevuto una preferenza e quindi un contatto diretto con il sovrano indiscusso delle urne, l’elettore. Il fenomeno dei nominati investe tutti i partiti dall’estrema destra all’estrema sinistra passando anche per il Movimento 5 Stelle che vede molti suoi esponenti eletti con pochissime preferenze ricevute preliminarmente in rete dallo stretto circolo dei sostenitori del movimento. La vera sfida del futuro era ed è capire qual è il sistema elettorale principe delle urne, quello al massimo rappresentativo della cittadinanza e di un territorio di riferimento. Certo è che oggi si grida allo scandalo, ma nel lontano 1991 gli italiani con oltre il 90% di sì hanno deciso di abolire le preferenze tra scandali di tutti i tipi e accuse di "voti di scambio". Inoltre, oggi i nominati dalle segreterie dei partiti siedono quasi esclusivamente in Parlamento, perché il voto con la preferenza è presente nei Comuni, nelle Regioni e anche nelle elezioni del Parlamento europeo. Insomma le tanto denigrate preferenze della Prima Repubblica oggi ritornano di moda, dopo tanti tentativi tra maggioritario, proporzionale, soglie di sbarramento e compromessi politici... Perché col cosiddetto Rosatellum le segreterie dei partiti potranno comunque "nominare" gli eletti a Camera e Senato. Nella consapevolezza che non esiste una legge elettorale perfetta il sistema più apprezzabile, a mio avviso, è quello uninominale a turno unico nel quale il seggio è assegnato al candidato che abbia riportato il maggior numero di voti oppure in alternativa quello a due turni che prevede un ballottaggio tra i due candidati che al primo turno abbiano riportato il maggior numero di voti. Lei cosa pensa in merito?
Giuseppe Simeone, avvocato, Santa Maria Capua Vetere

Gentile direttore,
sulla nuova legge elettorale (in attesa ancora dell’approvazione da parte del Senato) sono state scritte tante cose e sprecati tanti superlativi assoluti. La verità è che non si può andare al voto senza una legge elettorale, fatta dal Parlamento, omogenea per entrambi i rami del Parlamento. Una legge necessariamente non perfetta, perché dovendo essere condivisa da una maggioranza parlamentare la più larga possibile, non può che essere frutto di compromessi, accettabili, ma pur sempre compromessi. Se poi davvero funzionerà alla prova del fuoco delle urne oggi non possiamo saperlo. Possiamo solo augurarcelo, nell’interesse del Paese non di uno o un altro partito. Quella che si annuncia è una legge maggioritaria per un terzo dei seggi (dunque, almeno per questa parte, non la si può definire di "nominati dai partiti", come sinora è stato invece per la totalità dei seggi senza aver sollevato grandi reazioni dai segretari e leader di partiti e movimenti), e proporzionale con listini plurinominali "corti" per i restanti seggi, come avviene in molte altre democrazie europee, prospettiva "legittimata" anche dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza di bocciatura dell’Italicum. Si potrebbe fare una legge migliore del cosiddetto Rosatellum? Probabilmente si, in altra condizione parlamentare. Ma non è un colpo di stato, e neanche un colpo di mano. È semplicemente un testo la cui approvazione ha preso in contropiede partiti contrari (che contavano sui franchi tiratori) e giornalisti militanti per una prospettiva di caos.
Celso Vassalini, cittadino europeo, Brescia

Ragiono e scrivo di ipotesi di legge elettorale e di riforme del nostro sistema politico da più di trent’anni. Ho cominciato, cari amici lettori, alla fine degli anni 80 del Novecento, da giovane cronista parlamentare, e non ho più smesso. Perché in Italia non si è più smesso di fare e di disfare – o almeno di progettare di fare e disfare – "regole del gioco" e meccanismi istituzionali. Per due volte ho visto smontare per via referendaria grandi riforme faticosamente votate in Parlamento e orientate (sia pure con soluzioni evidentemente non solo per me non del tutto convincenti) a consolidare la mutazione in senso maggioritario e più presidenzialista della democrazia parlamentare italiana: la prima, sbrigativamente definita «della devolution», era targata Berlusconi-Bossi; la seconda, imperniata sul superamento del bicameralismo perfetto e dell’attuale regionalismo, è stata promossa dal Quirinale di Giorgio Napolitano e condotta in porto da Matteo Renzi. Quest’ultima bocciatura referendaria si è incastonata tra altri due sonori stop, quelli che la Corte costituzionale ha decretato su meccanismi cruciali di altrettante leggi elettorali: il cosiddetto Porcellum, utilizzato ben tre volte (2006, 2008, 2013) e il cosiddetto Italicum, sistema a doppio turno eventuale mai sperimentato e frutto della convinzione (errata) che la riforma costituzionale sottoposta a ratifica popolare il 4 dicembre 2016 sarebbe stata inevitabilmente approvata. Tutto questo ci ha portati all’attuale situazione. Il dibattito politico degli ultimi dieci mesi ha confermato quanto avevo visto, "letto" e registrato nel voto referendario del dicembre 2016: lo sprigionarsi di una "contronda" rispetto ai referendum che nella prima metà degli anni 90 avevano spinto l’Italia ad archiviare la lunga stagione del proporzionale. Un bene? Un male? Un fatto. Rispetto al quale, ovviamente, non contano le mie preferenze personali (vorrei un calibrato sistema a base proporzionale con premio di governabilità), ma l’efficacia del sistema elettorale nel rappresentare i cittadini-elettori e nel dare indicazioni comunque utili e chiare per il governo responsabile del Paese. E qui si mescolano preoccupazione e speranza. Temo, infatti, che l’obbligo di compiere scelte di coalizione non diminuirà affatto la fatica nel costruire un quadro politico stabile e coerente, ma non rinuncio a sperare di veder smentita questa preoccupazione. E, comunque, meglio questa soluzione della situazione attuale che consegna l’elezione di deputati e senatori a due leggi d’impostazione diversa e che, giustamente, il Capo dello Stato considera al limite della ingestibilità. Non mi dilungo, anche perché il 27 aprile («Fischio di riavvio»: CLICCA QUI ) sull’impulso dato dal presidente Sergio Mattarella e l’11 ottobre («Perché non basta»: CLICCA QUI ) dopo il voto della Camera sul Rosatellum, ho scritto sia dei problemi da risolvere sia delle perplessità sull’ipotesi di nuova legge elettorale che il Senato dovrà presto esaminare. Insisto, qui, su un punto chiave, che sta al centro delle analisi e dei commenti che da anni sviluppiamo sulle pagine di "Avvenire": possiamo anche farci piacere i listini bloccati corti accompagnati da una quota notevole di collegi uninominali per l’elezione dei due rami del Parlamento, ma non possiamo tacere che si tratta di una risposta solo parziale e ancora troppo verticistica nella selezione dei rappresentati del «popolo sovrano». Vanno riconsegnati ai cittadini elettori la possibilità e il concreto potere di designare i propri eletti. E il referendum del 1991 sulle preferenze, non servì per abolirle tutte visto che erano state usate male e per "controllare" il voto, ma per darcene una sola. Da lì si può e si deve ripartire. Personalmente suggerisco da tempo l’adozione di liste non bloccate sulle quali esprimere una sola preferenza (ma ne accetterei anche io due, "di genere", nel caso di voto per un uomo e per una donna) oppure il ricorso diffuso a collegi uninominali, ma con primarie di collegio per l’individuazione dei candidati. Dicono che scegliere e far scegliere è un rischio e "costa". Rispondo che non farci scegliere pienamente e spingerci a scegliere di meno (con l’astensione), costa molto di più. Ed è un rischio enorme, perché così si svuota il cuore della nostra democrazia.


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