sabato 12 novembre 2011
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Giusto ieri mattina i pendolari di una delle linee più frequentate d’Italia, la Genova-Milano, hanno dovuto armarsi di pazienza quando i loro treni sono stati bloccati a Pavia a causa di un guasto nella stazione di Certosa che ha imposto ai convogli ritardi tra i 30 e i 60 minuti. La numerosissima utenza diretta ai luoghi di lavoro e di studio nella città lombarda e proveniente dal Vogherese, dall’Alessandrino e perfino dalla Liguria, ha sofferto disagi che in molti casi si sono trasformati in un danno economico. Ma tant’è, quando ti sposti in treno – soprattutto se di treno di pendolari si tratta – conviene non fare eccessivo affidamento su un orario di arrivo certo. A volte neppure certo è quello di partenza.Duole dover fare queste considerazioni, che oltretutto non hanno il pregio dell’originalità. Duole perché il sistema ferroviario italiano, grazie alla sua storia (ha contributo all’unificazione della Penisola accorciandola), all’apertura all’innovazione (fu tra i primi a introdurre la trazione elettrica) e alla capillare estensione della rete (tagli recenti a parte), ha svolto un servizio che vorremmo veder continuare con lo stesso spirito di sempre. Di quando cioè le vetture di terza classe portavano al Nord legioni di immigrati e il dirigente con il berretto rosso dal bordo del marciapiedi dava il via a ogni convoglio, presenza rassicurante di funzionario dall’occhio vigile, garanzia che tutto era a posto. La terza classe non esiste più da decenni e il dirigente con il berretto rosso (il capostazione, nella vulgata corrente) è sparito dalla banchina. Questione di efficienza, razionalizzazione e risparmio. Identica l’esigenza di risparmio che ha costretto negli anni le ferrovie a ridurre i treni, a sostituirli dove possibile con corse automobilistiche e a tagliare i cosiddetti rami secchi. La disperata necessità di contenere la spesa pubblica in una fase di drammatica crisi economica, vede ora le Regioni, sulle quali è stato scaricato l’onere del trasporto locale, annaspare alla ricerca di un bel pacchetto di milioni (almeno 1.500) che consentano di mantenere il servizio ai livelli preesistenti, rispondendo alle attese di quei due milioni di italiani che compongono la bistrattata categoria dei pendolari. I 400 milioni che Roma riesce a malapena a scucire dopo gli ultimi tagli ai trasferimenti coprono solo un quarto del fabbisogno. Senza risorse finanziarie è inevitabile che con i nuovi orari molti treni pendolari vengano soppressi, è scontato che varie corse debbano saltare o essere ridotte di frequenza e di percorrenza ed è pacifico che la manutenzione del parco circolante diventi approssimativa. Quanto alla pulizia delle carrozze, eterna nota dolente, peggiorerà, mentre lo scadimento dei livelli di puntualità farà rimpiangere i consueti ritardi e inconvenienti d’oggi. È un paradosso tutto italiano quello che caratterizza le nostre ferrovie. Da una parte le linee dell’alta velocità che Trenitalia esibisce (giustamente) come fiore all’occhiello, espressione di modernità, rapidità, comodità di stampo europeo, frecce di vario colore per una fascia di clientela esigente e generalmente propensa a spendere qualcosa di più, ma che assorbono oltre il 90 per cento delle risorse destinate alla rotaia. Dall’altra, la platea sterminata e in crescita dei pendolari, ai quali vanno le briciole come corrispettivo di tanti disagi e sacrifici. Pendolari che a breve avranno – è timore diffuso – meno collegamenti e orari meno comodi. Studenti e lavoratori che viaggeranno ancora più stipati in vetture d’epoca o quasi, sporche, impolverate e con gli arredi cadenti. Ciliegina sulla torta, per un servizio qualificabile come disservizio l’utente del treno (pardon, il cliente) subirà la beffa della lievitazione del costo dei biglietti. Potrebbero raddoppiare là dove i tagli dei trasferimenti alle Regioni fossero rilevanti. Finirà che molti pendolari esasperati abbandoneranno la rotaia per l’asfalto, il treno per l’auto alimentando l’assalto selvaggio delle quattroruote alle città già alle prese con il traffico caotico, la congestione degli spazi, il rumore, l’inquinamento. Un esito da incubo. Qualche anno fa Giancarlo Cimoli, dal 1996 al 2004 al vertice di Fs, assicurava che con la «cura del ferro», cioè con lo spostamento del traffico a lunga percorrenza sulle costruende linee veloci e la parallela destinazione delle linee storiche al movimento dei pendolari, il trasporto pubblico locale avrebbe raggiunto livelli di assoluta efficienza e concorrenzialità. Non è andata esattamente così, ma quella del ferro sarebbe la terapia risolutiva per garantire la mobilità e salvare le città. Solo che sul ferro, cioè sulle rotaie, dovrebbero circolare treni. Sempre più treni.
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