martedì 15 novembre 2016
La battaglia dell'umiltà
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Contro Donald Trump e contro la Brexit: che cosa succede tra i media e la società se un giornale come il New York Times, dopo le recenti elezioni americane, è arrivato a chiedere scusa per l’errore di valutazione fatto nelle scorse settimane? Giornali e tv sono da condannare per essersi schierati senza capire come era cambiato il vento oppure la questione è più profonda? E che cosa ci dicono queste due vicende sul futuro che ci aspetta?


Il sistema dei media ufficiali ha le sue colpe: gli strumenti di cui si serve per leggere la realtà, vincolati come sono alla velocità dell’informazione, non sono sempre precisi. I tagli degli ultimi anni poi hanno ridotto i fondi per le inchieste così che i giornalisti che stanno davvero fra la gente sono sempre meno. A ciò si aggiunge il "pregiudizio istituzionale": legato in un modo o nell’altro all’ordine delle cose vigente, lo sguardo dei media tende sempre a riflettere paure e questioni vissute dal centro della società più che dalla periferia. Anche perché, al suo interno, si rafforzano circuiti autoreferenziali, con idee e valutazioni che si legittimano a vicenda. Apparentemente la gente comune è onnipresente nei media. Ma come semplice utente-consumatore o comparsa in un copione scritto da altri, più che come persona che da ascoltare.


E tuttavia il caso Brexit-Trump dice qualcosa di più, segnalandoci che la società della comunicazione sta segnando un nuovo salto di qualità: è il modo in cui il consenso oggi si forma che è (nuovamente) cambiato.
Le notizie girano in continuazione, producendo un effetto eco che spesso le distorce. Tutto entra in circolo. Un gesto ben studiato può irradiarsi fino a raggiungere l’ultimo quartiere di periferia. La provocazione convince più del ragionamento; il corpo del leader conta molto di più dei suoi contenuti.


Gli effetti si moltiplicano nel momento in cui si combinano con le tante faglie identitarie da cui sono attraversate le nostre società: genere, religione, etnia, territorio, generazione, condizione economica. Lavorando dentro queste insenature, i social media creano golfi di consenso. Così, pur rimanendo ancora meno potente della televisione, la rete ha comunque un ruolo importante perché struttura punti di riferimento eterodossi e mobili che riarticolano la formazione dell’opinione pubblica. Che finisce per essere la sommatoria di una serie di punti di vista parziali, in un gioco di azioni e reazioni che non garantiscono la ragionevolezza del risultato.


Si produce un effetto "caleidoscopio": l’informazione non solo viene prodotta da una pluralità di fonti – molte delle quali incontrollate – ma si ricombina di continuo, producendo esiti mutevoli, difficilmente prevedibili, e soprattutto lontani dalle ipotesi di razionalità formulate, non senza una certa supponenza, dalle élite culturali.


La cattiva notizia è che una società di questo tipo ha pochi anticorpi ed è quindi facilmente "scalabile". Più che dalla propaganda in senso classico, dall’uso della provocazione come elemento aggregante. Dove anche il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso rischia di diventare sempre più evanescente e alla fine irrilevante, come nelle nuove retoriche della "postverità". Il che significa una società esposta a qualsiasi "virus" perché sempre meno capace di avere una sua propria stabilità.
La buona notizia è che nonostante i potenti mezzi di cui disponiamo, la realtà, molteplice e in movimento, rimane sfuggente. E questo è un fattore con cui tutti coloro che hanno il potere devono fare i conti.


Per i media, una tale consapevolezza è il modo per mantenere quella umiltà che è poi garanzia per evitare di avvitarsi in una progressiva delegittimazione – distintamente avvertita in questi giorni – che alla lunga rischierebbe di picconare un altro pilastro delle nostre democrazie.Un punto importante, dato che è probabile che la guerra tra Trump e i media sia so- lo all’inizio: come in campagna elettorale, anche nel suo mandato il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America cercherà di sfruttare il vantaggio di credibilità che la vittoria gli attribuisce, potendo sempre dire che i media lo criticano perché sono venduti e complottisti. E su questo punto batterà tutte le volte in cui ne avrà bisogno.

Anche al di là delle evidenze. Ciò pone responsabilità nuove ai media (e più in generale a tutti coloro che si occupano di comunicazione e di educazione) che avranno il difficile compito non solo di sostenere un punto di vista fondato e indipendente, ma anche di interrogarsi su come essere più incisivi nel processo di formazione della pubblica opinione contemporanea. Mai come in questo momento, in cui le categorie che hanno retto una lunga stagione storica sono incapaci di indicare una linea di azione precisa e ragionevolmente condivisa, quanto ha sostenuto Ulrich Beck appare profetico: anche – e forse soprattutto – in una società avanzata (dove il rischio è principalmente prodotto delle decisioni umane) la battaglia delle interpretazioni – e il modo in cui si radicano – è il fulcro attorno a cui ruota l’intera vita sociale.

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